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 2019  giugno 16 Domenica calendario

Il trattato di pace con la Germania del 1919

«Alla fine, è quello che è, in primo luogo l’opera di esseri umani e come tale non perfetta. Tutti noi abbiamo fatto il possibile per lavorare bene e in fretta». Così il primo ministro francese Georges Clemenceau commentò la conclusione del trattato di pace con la Germania, elaborato con il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, il primo ministro del Regno Unito David Lloyd George, e, in misura ridotta, con il presidente del consiglio del Regno d’Italia Vittorio Emanuele Orlando. Furono chiamati i Quattro Grandi.
Alla vigilia della conferenza, iniziata il 18 gennaio 1919, fu evocato il congresso di Vienna, come unico precedente storico; furono persino commissionati studi per conoscere le sue procedure. Ma trovare analogie fra i due congressi sarebbe un esercizio di astoriologia, cioè pessima comparazione storica, perché la storia comparativa rileva le diversità piuttosto che le somiglianze, come insegna uno dei suoi fondatori, March Bloch. E le diversità fra il congresso di Vienna e il congresso di Parigi erano abissali.
Infatti, a Vienna fu un congresso continentale, mentre a Parigi fu un congresso mondiale. Il primo fu un congresso reazionario contro la rivoluzione democratica e nazionale, il secondo volle liberare i popoli oppressi e rendere il mondo sicuro per la democrazia. Inoltre a Vienna fu riconsacrato il primato millenario della sovranità per diritto divino, mentre a Parigi, dopo quasi cento anni di rivoluzioni, lotte e guerre per la libertà dei governati e dei popoli, fu sancito il primato della sovranità popolare. Un’altra diversità sostanziale: a Vienna, la Francia sconfitta, con la monarchia borbonica restaurata, partecipò e influì sulle decisioni dei sovrani; a Parigi, la Germania vinta, benché avesse instaurato la repubblica, dovette subire il trattato imposto dai vincitori, senza essere ammessa a discuterlo.
La conferenza per la pace fu tutt’altro che pacifica. I governanti alleati diffidavano l’uno dell’altro, litigarono su tutto, e ciascuno cercò di ottenere quanto riteneva giusto e necessario per il proprio paese. Wilson si atteggiò a statista al di sopra dei nazionalismi, impegnato a realizzare una pace di libertà e di giustizia, secondo i suoi Quattordici punti, fra i quali vi erano l’istituzione della Società delle Nazioni e il principio dell’autodeterminazione dei popoli per legittimare la nascita di nuovi Stati, e per costruire un mondo al riparo dalla guerra e reso sicuro per la democrazia.
Clemenceau, il più vecchio fra i Quattro Grandi e con più longeva esperienza politica, ironizzava sui Quattordici punti, «quando il buon Dio ne ha solo dieci». Soprannominato la Tigre per la sua combattività, il quasi ottantenne Clemenceau odiava la Germania. Aveva 30 anni, quando le armate prussiane occuparono Parigi, e il cancelliere von Bismarck, alla presenza del re di Prussia, nella Sala degli Specchi nella reggia di Versailles, il 18 gennaio 1871 proclamò la nascita dell’impero tedesco. Clemenceau assistette di nuovo all’invasione tedesca nel 1914. Tre anni dopo, a 76 anni, fu chiamato a governare la Francia nel momento più grave della sua guerra. E la guidò alla vittoria. L’orgoglioso nazionalista repubblicano era ossessionato dal pericolo tedesco. Voleva lo smembramento della Germania per renderla inoffensiva. Le durissime condizioni imposte alla Germania per renderla economicamente e militarmente impotente, ebbero l’impronta della Tigre.
Wilson cercò di contenere la foga antitedesca del francese, che inquietava anche Lloyd George, il quale non voleva l’egemonia della Francia nel continente, e considerava le mutilazioni territoriali imposte alla Germania, con la perdita di oltre due milioni di tedeschi, la «causa più determinante nello scatenare una futura guerra». Ma il francese e l’inglese furono d’accordo per spartirsi il bottino coloniale tedesco in Africa. E insieme negarono agli austriaci il diritto di votare per l’annessione alla Germania.
Il trattato di Versailles era composto da 440 articoli. La condizione più grave, la madre tutte le altre, era esposta nell’articolo 231: «Gli alleati e i Governi associati affermano, e la Germania accetta, la responsabilità della Germania e dei suoi alleati per aver causato tutte le perdite ed i danni che gli Alleati ed i Governi associati e i loro cittadini hanno subito come conseguenza della guerra loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati».
I delegati tedeschi furono convocati per la firma il 28 giugno, anniversario dell’attentato di Sarajevo. Dopo la rivincita delle armi, la Tigre volle la rivincita dei simboli: i tedeschi firmarono il trattato nella Sala degli Specchi dove era stato proclamata la nascita dell’impero tedesco, ormai defunto.
Nel centenario del trattato di Versailles, il conflitto simbolico delle date evoca la tragica ironia della storia. Ironica fu l’ultima storia di Wilson. Partì la sera stessa del 28 giugno, convinto di aver reso il mondo sicuro per la pace con la Società delle Nazioni: ma la maggioranza repubblicana del Senato bocciò l’adesione all’organizzazione internazionale voluta dal presidente democratico. Ironica fu la storia anche con gli artefici della pace nel 1919. Infatti, sono accusati di aver reso inevitabile l’esplosione della seconda guerra mondiale, perché la “pace cartaginese” imposta alla Germania, eccitando il nazionalismo tedesco, avrebbe generato Adolf Hitler.
Una simile accusa appartiene alle leggende dell’astoriologia, perché non ci fu una concatenazione inevitabile fra il trattato di Versailles e la seconda guerra mondiale. È vero che i Quattro Grandi produssero una pace senza pacificazione, e incautamente seminarono mine esplosive nel continente. Ma l’esplosione non era inevitabile. È vero che i principi di libertà, giustizia, autodeterminazione dei popoli, furono professati, ma ipocritamente applicati secondo convenienza. È vero che non fu accettata dagli alleati occidentali la richiesta dei giapponesi di inserire nel trattato una clausola che affermava l’eguaglianza delle razze, e l’indipendenza fu negata alle popolazioni delle colonie che erano appartenute all’impero tedesco, come fu negata a tutte le altre colonie. Ma a Versailles fu deciso anche altro. Furono riconosciuti nuovi Stati indipendenti nati prima della conferenza, e ad essi fu richiesto di sottoscrivere trattati di protezione per le minoranze nazionali annesse entro i loro confini. Anche se, con sfacciata esibizione di superiorità, le potenze maggiori, che avevano minoranze nazionali entro i loro confini, furono esonerate dal sottoscrivere trattati analoghi, perché essendo democrazie più civili, le loro minoranze erano già tutelate.
La storia dopo Versailles non marciava inevitabilmente verso una nuova guerra mondiale. Dieci anni dopo, le peggiori crisi del dopoguerra apparivano sanate. La Germania aveva un’economia forte; e la repubblica, pur incespicando, camminava in pace. Nel 1925, con il Patto di Locarno, Francia e Germania avviarono la riconciliazione. L’anno successivo il ministro degli esteri francese Aristide Briand e il ministro degli esteri tedeschi Gustav Stresemann ottennero il Nobel per la pace. La guerra non minacciava l’Europa nel 1929, quando il 5 settembre, alla Società delle Nazioni, Briand auspicò gli Stati Uniti d’Europa. A quel tempo, solo il 2,8 per cento dei tedeschi votava per il Führer del nazionalsocialismo, che urlava nelle piazze contro il trattato di Versailles promettendo la rivincita della armi. Ma lo prendeva sul serio solo il suo seguito.
Poi il 29 ottobre 1929 crollò la Borsa di Wall Street. E la storia aprì una strada imprevista per l’ascesa di Hitler al potere. Il Nobel per la pace Stresemann era morto il 3 ottobre 1929. Per un essere umano, la morte è inevitabile. Ma nella storia dopo Versailles, nulla fu inevitabile. Fino al 1° settembre 1939.