Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2019
Biografia di Giovanni Arvedi
«Ho un diploma da ragioniere. Mio padre Dante avrebbe voluto che lavorassi in banca. Non ho basi scientifiche. Sono però un riflessivo, ho girato il mondo e io, a quella cosa là, ho sempre creduto. Nonostante tutti mi dicessero che fosse impossibile».
L’odore della campagna in una giornata fresca di primavera sale dai campi tutto intorno sulle scalinate del palazzo patrizio nel cuore di Cremona. Giovanni Arvedi, classe 1937, è uno dei pochi imprenditori italiani ad avere fatto una innovazione che ha modificato radicalmente la manifattura internazionale. Il tavolo imbandito è al centro del salone con gli stucchi e gli ori. Alle pareti ci sono i dipinti di scuola lombarda. Arvedi è per tutti – qui in città, nella campagna e nella siderurgia nazionale – il Cavaliere, retaggio di una generazione cresciuta nel Secondo dopoguerra per la quale il lavoro era una forma di autentica nobilitazione dell’uomo. Un profilo pubblico arricchito dagli investimenti sociali compiuti con la Fondazione Arvedi Buschini, sua e della moglie Luciana: per esempio il campus della Cattolica nell’ex convento di Santa Monica per mille studenti e il museo del violino, costruito nel palazzo del podestà, un edificio di razionalismo fascista con un auditorium curato dall’ingegnere del suono acustico Toyota Yasuhisa. Lui ha un vestito blu notte, confezionato da un sarto napoletano emigrato a Cremona tanti anni fa. Tutto intorno alla tavola, si affaccendano veloci i camerieri in livrea e le cameriere con il grembiule bianco. Il primo piatto servito è culatello di Zibello con una formina di carciofi.
Nella sala da pranzo, nei discorsi cade più volte l’espressione «quella cosa là». Quella cosa che tutti dicevano fosse impossibile. Prima di Arvedi si prendeva il minerale o il rottame, lo si fondeva ottenendo acciaio liquido e con la colata continua si arrivava a un semiprodotto, nel caso dei piani una bramma, che poi veniva riscaldato e trasformato in rotoli con la laminazione; dopo Arvedi si salta il passaggio intermedio e si passa dall’acciaio liquido al rotolo.
«Il primo brevetto è del 1990. Per arrivarci, ho collaborato per tutti gli anni Ottanta con la Advent e la Interflow negli Stati Uniti e in Canada e, in Europa, con le università di Aquisgrana e di Friburgo. Il primo impianto con questa nuova tecnologia è del 1992 ed è qui a Cremona. Quell’anno abbiamo fatto il bilancio peggiore della nostra storia. Siamo andati in difficoltà. Io ho perseverato. Ma, davvero, a quella cosa là non credeva nessuno».
Quando dice con un entusiasmo quasi fanciullesco «quella cosa là» – mentre vengono serviti i tagliolini pomodoro e basilico – Arvedi esprime la forza visionaria e ossessivamente divergente che ha permesso nel Novecento a un Paese di agricoltori – e qui a Cremona questa natura profonda è ovunque – di diventare una Nazione di imprenditori. «Quella cosa là», che oggi è espressa e protetta da 480 brevetti a livello internazionale, ha eliminato una fase produttiva, ha abbattuto i consumi di energia e ha ridotto gli spazi fisici delle acciaierie, un tempo ancora più mastodontiche di oggi. Arvedi assomiglia a Piergiorgio Perotto e Roberto Olivetti con la Programma 101, l’antesignano del personal computer, e a Giulio Natta del polipropilene della Montedison: è una anomalia rispetto al modello italiano, che è fondato sulla modernizzazione del suo patrimonio classico (l’estetica e l’artigianalità trasfuse nel lusso, per esempio) e sulla innovazione di processo (la meccanica).
Arvedi ha sia lo sfruttamento attraverso le royalty di questa innovazione disruptive sia l’attività siderurgica classica. Nel 2008, anno del fallimento di Lehman Brothers e dell’inizio della Grande crisi, il fatturato era di poco inferiore a 1,4 miliardi di euro e il margine operativo lordo era pari a 132 milioni di euro; nel 2018, i ricavi hanno oltrepassato i 3 miliardi di euro e il margine operativo lordo ha raggiunto i 457 milioni di euro. «US Steel Corporation – nota Arvedi – è l’ultimo grande gruppo ad avere assorbito questa nostra tecnologia. Trump si è congratulato con Us Steel twittando che “Pittsburgh is again the Steel City”».
I camerieri portano filetti di sogliola con verdure al vapore. Nei bicchieri si alternano un bianco Ortrugo e un rosso Gutturnio, entrambi della Cantina Romagnoli. Arvedi è un imprenditore siderurgico di prima generazione. La famiglia paterna, in armonia con una provincia così profondamente agricola, realizzava impianti per il settore lattiero-caseario. Abbandonato questo settore, il padre Dante – classe 1898 – si era messo a commerciare in prodotti siderurgici (travi e profilati) e aveva una grande ferramenta che vendeva anche macchine automatiche utensili, predisponendo impianti chiavi in mano. Nel 1963, a Robecco d’Oglio, gli Arvedi hanno aperto il primo impianto specializzato nei tubi, con un centinaio di addetti. Nel 1972 hanno fondato a Cremona la prima vera acciaieria. «Mio padre era un uomo onestissimo. Pagava tutti, ogni settimana. Ma non aveva la mentalità per fare investimenti e assumersi rischi. Quando gli spiegai che volevo espandermi, si mise a piangere». Nel 1972, Dante Arvedi ha 74 anni. Giovanni Arvedi, nel 1976, ha 39 anni. Ha appunto una formazione da contabile. Non ha una laurea in ingegneria (la riceverà honoris causa dal Politecnico di Milano nel 2013). Non è un informatico. «Nell’industria si stava diffondendo il microprocessore. Noi, nel 1976, introducemmo l’informatica». Arvedi racconta che cosa era la siderurgia prima dell’avvento dell’elettronica allo stato solido applicata al computer: nessuna forma di contenimento della potenza delle fiamme e del calore, moltissimi compiti svolti a mano, macchinari giganteschi azionati a pedali, ambienti che ricordavano la versione di ferro e di fuoco, moderna ed estesa delle botteghe quattrocentesche dipinte da Cosmè Tura e Francesco del Cossa, fissate per sempre nell’Officina ferrarese di Roberto Longhi. «Già negli anni Settanta venivo guardato con sospetto: ero italiano, anzi venivo dalla provincia italiana, ero un ragioniere e non un ingegnere, avevo aperto da poco la mia acciaieria».
Cremona è la quintessenza dell’Italia agricola. Tutti fascisti nel Ventennio – fra le attività della fondazione Arvedi Buschini, c’è la restaurazione della Colonia Farinacci del 1936, ribattezzata Parco delle Colonie Padane – e tutti democristiani nel Secondo dopoguerra. Il centro storico ha i suoi perni nel Duomo, nel Battistero e nel Torrazzo. Le fondamenta del palazzo Lodi-Zaccaria dove stiamo pranzando risalgono al Quattrocento, ma le sue facciate e i suoi interni sono tardo seicenteschi. Nell’immediato dopoguerra questo palazzo fu acquistato dalla famiglia della futura moglie di Arvedi, Luciana Buschini. La famiglia della moglie, attiva nell’edilizia e negli allevamenti, era proprietaria dell’azienda agricola a Casanova d’Offredi in cui i due coniugi si riposano nei fine settimana. Arvedi appartiene alla schiatta dei democristiani di sinistra, quella strana genia di uomini pubblici cattolici che non hanno smussato, anzi, hanno acuminato interiormente le loro punte: Giovanni “Albertino” Marcora, Carlo Donat-Cattin e poi, giù per li rami, Giuseppe Guzzetti, Mino Martinazzoli, Romano Prodi e Giovanni Bazoli. Ognuno con il suo stile, tutti con il pugno di ferro – anzi, di acciaio – in guanto più o meno di velluto.
Mentre i camerieri versano nei bicchieri la macedonia e portano piatti ricolmi di pasticceria secca e fresca, che vengono riforniti in continuazione mano a mano che li mangiamo, il colloquio con Arvedi descrive un’altra sfaccettatura di una personalità che rappresenta bene la versatilità degli uomini del Novecento: non solo l’industria, ma anche la passione civile e politica. La quale, soprattutto nel secolo scorso, si esprimeva nell’editoria. E che, in quell’Italia, permetteva il rimescolamento fra establishment e homines novi, élite cittadine e ceti emergenti delle province. Arvedi è stato – in tempi diversi – socio del Giornale Nuovo di Indro Montanelli, dell’Avvenire ai tempi in cui il Cardinale Camillo Ruini era presidente della Cei e della Rizzoli Corriere della Sera. In Rizzoli, è stato vicepresidente dal 1984 al 1993. «In una primissima fase – ricorda con orgoglio – sono stato l’unico a mettere sul piatto 140 miliardi di lire per il suo salvataggio. In quel primo momento, soltanto io e Guzzetti, che allora era presidente della Regione Lombardia, ci spendemmo in maniera concreta per il Corriere post P2: il resto della classe dirigente milanese e lombarda era silente. Soltanto che un salvataggio diretto avrebbe turbato troppo gli equilibri politici. Allora c’erano la Dc, il Psi e il Pci. Era tutto molto complicato. E, così, anche con il perno dell’Avvocato Agnelli, che aveva grande simpatia per me e che mi volle coinvolto in prima persona, si realizzò una soluzione di sistema, a cui partecipai volentieri».
Nella vita pubblica italiana, le soluzioni sono sempre di sistema. Nella vita industriale e sui mercati globali, le soluzioni sono soluzioni e basta. E, mentre arriva il caffè in questo pomeriggio ormai inoltrato, il pensiero di Arvedi, che va per gli 82 anni e che non ha figli, corre a quando un giorno si farà sera anche per lui: «Per la Arvedi, a livello di capitale sarà naturale cercare una aggregazione e una combinazione costruttiva con altri gruppi». E, mentre lo dice, non mostra alcuna forma di malinconia o tristezza.