Corriere della Sera, 16 giugno 2019
Intervista al cardinale Ravasi
C ardinal Ravasi, lei è del 1942. Cosa ricorda della guerra?
«Luci rossastre nella notte: i bombardamenti su Milano».
La sua famiglia è brianzola.
«Sono nato a Merate, ma con mia mamma sfollammo a Santa Maria Hoè. Passai il primo anno della mia vita a piangere: lasciavo intravedere un’indole pessimista, diversa da quella di oggi. Papà era antifascista. Fu mandato a combattere in Sicilia in prima linea. Disertò, con molti altri. Tornò a casa a piedi, ci mise un anno e mezzo. Quando arrivò, faticai a prendere confidenza con lui. La compagna di giochi della mia infanzia era un’oca di legno: quando pioveva il sentiero diventava un rigagnolo, dove la portavo a nuotare. Non invidio ai ragazzini di adesso i loro videogame».
La fede nella Brianza degli anni 40 era naturale.
«Se la domenica mattina qualcuno l’avesse sorvolata in elicottero, avrebbe visto i contadini e gli operai confluire da tutte le strade verso le chiese».
Lei quando ha scoperto la fede?
«La prima intuizione, a quattro anni. Con mio nonno materno Giovanni, cui ero molto legato, guardavamo il tramonto da una collina che dominava la valle. Sentimmo il fischio del treno. Era il Milano-Lecco. Avvertii la percezione della fine delle cose. La malinconia. L’idea che la realtà è instabile. Il senso della morte. Da qui il desiderio di qualcosa di eterno».
Ha mai avuto dubbi sull’aldilà, sull’immortalità dell’anima?
«Ho sempre concepito la fede come intrecciata con la tenebra, l’oscurità, la domanda, il dubbio. I modelli sono Abramo e Giobbe. Penso all’ascesa di Abramo al monte Moria, accanto a Isacco, il figlio da sacrificare: per tre giorni Dio non parla più, scompare, e i due parlano tra loro, “padre mio”, “figlio mio”; il solo conforto è la solidarietà umana, il legame della carne».
E Giobbe?
«Giobbe dice a Dio: “Quand’anche tu mi uccidessi, io continuerò a credere in te”. Nella sua fede c’è un elemento paradossale. L’itinerario del suo credere può comprendere persino la blasfemìa. Giobbe accosta Dio a un arciere sadico che scaglia frecce contro di lui, a un leopardo che affila gli occhi su di lui, al generale trionfatore che gli sfonda il cranio».
Cosa ne deduce?
«Che credere è un rischio. Fede e religione non sono sinonimi, anche se tra loro connessi. La fede è un’esperienza esistenziale, una scelta radicale. La religione è la manifestazione esteriore. Agitare il Vangelo, ostentare il rosario, baciare il crocefisso non fa di te necessariamente un credente».
Quindi Salvini sbaglia?
«Sono segni che di per sé non rappresentano l’autenticità del credere. Cristo condanna chi prende i primi posti in sinagoga, chi allunga i filattèri, le pergamene con i versetti della Torah. Cristo perdona tutte le colpe, ma non sopporta le ipocrisie. Non esiste l’autosalvezza. Non ci si salva con le manifestazioni esteriori, ma con la profonda adesione alle scelte morali ed esistenziali. Non è il gesto rituale che salva. Il sacramento è “opus operatum”, atto oggettivo segnato dalla presenza divina, ma anche “opus operantis”, atto soggettivo, scelta vitale e morale. Altrimenti è rito magico. Magia».
I cattolici in politica oggi contano poco.
«È difficile ricostruire una struttura, un’esplicita presenza cattolica. È però possibile e necessario essere una spina nel fianco della società. Non avere paura di andare controcorrente».
Con la sua difesa dei migranti, il Papa non ha perso un po’ della sua sintonia con l’opinione pubblica?
«Il Papa parla da cristiano, la sua voce ci ricorda i nostri valori. Come diceva padre Turoldo, non dobbiamo inseguire il consenso, né il dissenso fine a se stesso; dobbiamo inseguire il senso».
L’Italia è in crisi di fede?
«Sì. Tutti i grandi studiosi affermano il ritorno del sacro. Però il sacro può essere solo qualcosa di rituale, di esteriore, di convenzionale. Temo che il credere profondo sia in crisi. I veri credenti sono minoranza. Non dobbiamo e non possiamo pretendere di essere maggioranza, di gestire la società come è avvenuto in passato. Possiamo e dobbiamo essere, lo ripeto, una spina nel fianco, cioè una testimonianza viva. Come i cristiani delle origini, che si rifugiavano nelle catacombe ma non per questo rinunciavano a impegnarsi in pubblico. Noi oggi possiamo e dobbiamo provocare. Dire anche il contrario di ciò che è dominante. Cristo del resto è stato in cattiva compagnia: prostitute, peccatori, apostoli che lo tradiscono...».
E muore sulla croce.
«La morte del sedizioso, del terrorista, dello schiavo. Sono convinto che la scelta del Cristo, e quindi la scelta della Chiesa, non sia adeguarsi al contesto, ma essere forza di provocazione, che grida innanzitutto le verità ultime – la vita e la morte, il bene e il male – ma anche le verità penultime: solidarietà, giustizia, etica sessuale, lotta al crimine... Il Vangelo autentico non è una cosa che si accoglie come un messaggio tranquillo. E il Cristianesimo non è una religione solo trascendente come l’Islam; è una religione incarnata. Ha sempre avuto una dimensione sociale e “politica”, nel senso originario del termine».
Però oggi nel mondo esistono teocrazie islamiche.
«Sì, ma per l’Islam Dio è il sole, e tu sei una pozzanghera. A volte la pozzanghera può riflettere il sole; ma resta una pozzanghera. Per noi cristiani, il Dio trascendente ha deciso di condividere la nostra condizione. Non di consolare l’uomo, né di dominarlo; ha deciso di attraversarlo. Dio si è fatto uomo e ha condiviso con noi quello che ci rende umani: il dolore e la morte. Sorprendente è la rilettura dell’Incarnazione fatta da Jung: l’uomo Giobbe contesta Dio sull’oggettività dell’etica, dubita su cosa sia bene e cosa sia male; Dio si incuriosisce, e decide di mandare suo figlio, farlo diventare umano, spalla a spalla con Giobbe».
Cosa intende?
«Cristo condivide la domanda di Giobbe: perché il dolore? Perché il male? Perché la morte? Ed ecco che la morte per noi non è più uguale a prima, se è stata attraversata da Dio».
Come ricorda i suoi Papi? Pio XII?
«Avevo otto anni, lo vidi a Roma per il Giubileo del 1950, sulla sedia gestatoria. Una teofania del sacro».
Giovanni XXIII?
«Lo incontrai brevemente una volta: parlammo di Bergamo, della Brianza, della provincia bianca lombarda. Ero stato in piazza San Pietro la sera dell’apertura del Concilio: il discorso della luna. Ci incantò. Ero appena arrivato a Roma con una borsa di studio che mi aveva fatto avere l’arcivescovo di Milano».
Giovanni Battista Montini, che l’anno dopo sarebbe diventato Paolo VI. A Milano lei tornerà poi come prefetto dell’Ambrosiana, chiamato da Martini. Che ricordo ne ha?
«Martini era freddo nel tratto, caloroso e creativo nel dialogo con la cultura contemporanea. Fu mio insegnante di critica testuale, un argomento molto tecnico, che consiste nell’individuare tra i vari codici e papiri il testo più autentico della Bibbia. Si ricordava ancora l’esame che avevo sostenuto con lui, su una frase del secondo libro dei Maccabei, costruita su due verbi differenti secondo i diversi codici...».
Com’erano davvero i rapporti tra Martini e Wojtyla?
«Avevano alcune visioni diverse. Non credo al concordismo assoluto. Fatta salva la verità di fede, esistono nella Chiesa prospettive diverse. Papa Benedetto lo sapeva, eppure mi affidò lo stesso il Pontificio consiglio per la cultura. Ho organizzato il Cortile dei Gentili in modo un po’ diverso da come l’aveva pensato lui, eppure me l’ha consentito e mi ha sostenuto. Ricordo bene le sue parole al telefono quando mi chiamò a Roma: “Devo chiederle un favore, so che per lei è un sacrificio lasciare Milano... se vuol pensarci qualche giorno...”».
Lei cosa rispose?
«Di sì, subito. Anche se mi è spiaciuto davvero lasciare Milano».
Com’è Milano?
«Una città straordinaria, per socialità e generosità. Il recupero dell’Ambrosiana valeva 47 miliardi di lire: alla Chiesa non è costato un centesimo, li hanno pagati tutti i milanesi, dalla Fondazione Cariplo fino alle persone semplici, come quei genitori che mi pregarono di dare a un codice restaurato il nome del figlio morto di droga. A Roma, per salvare gli affreschi delle catacombe dei santi Marcellino e Pietro ho dovuto chiedere aiuto all’Azerbaigian. Al Centro San Fedele ho avuto per 22 anni almeno mille persone, ogni sabato di Avvento e di Quaresima, per la lettura della Bibbia. A Roma ne avrei cinquanta».
Non crede che Bergoglio sia andato oltre quello che si attendevano i cardinali che l’hanno eletto, lei compreso?
«Francesco è stato una sorpresa. Quando entrammo in Conclave, in pochi si attendevano che dopo Benedetto sarebbe stato scelto – e in pochissime votazioni, non più del Conclave precedente – un tipo diverso di Papa, con una visione così innovativa. Tenga conto che tra noi in Conclave non si parla più di tanto...».
Come mai?
«Il rito è lunghissimo. Ognuno viene chiamato per nome, deve prendere la scheda in mano, posarla su un vassoio d’argento, passare sotto lo sguardo severo del Cristo di Michelangelo, recitare una formula latina di “automaledizione”, in cui ci si augura il giudizio divino se non si compie una scelta secondo coscienza e per il bene della Chiesa. Non resta molto tempo per parlarsi. Qualche giorno dopo l’elezione di Francesco, incontrai sul Lungotevere un signore che mi disse: “Resto ateo, ma comincio a credere allo Spirito santo”».
Però lei ha appena detto che l’Italia è in crisi di fede.
«È necessaria una profonda revisione della pastorale e del linguaggio, tenendo conto del nuovo contesto; pensiamo solo alla cultura digitale. Noi non facciamo abbastanza per i fedeli. È più semplice fornire una tesi cui aderire e imporre un rituale. Ma la fede implica formazione, riflessione, condivisione, comprensione».
Lei cita spesso Agostino: «Chiunque crede pensa, e pensando crede. La fede se non è pensata non è nulla».
«Amo molto anche Spinoza, che nel suo Tractatus politicus scriveva: Sedulo curavi actiones humanas non ridere, non lugere, neque detestari; sed solum intelligere».
Ho assiduamente tentato di imparare a non ridere delle azioni umane, a non piangerne, a non odiarle; solo capirle.
«Intus legere: leggere dentro, conoscere. Noi non conosciamo solo con la ragione o con i sensi o con l’esperienza estetica. Quando uno si innamora, non si innamora solo della bellezza: anche un volto imperfetto diventa espressione di significati che non sono percepibili soltanto con la ragione. Sono stato amico di Mario Luzi, ho visto da quanta fatica, da quanti rifacimenti nasceva ogni suo verso: il poeta dice cose che non riesci a elaborare con la sola razionalità. Così è la fede: un altro canale di conoscenza che però non esclude appunto la ragione, il pensiero».
Lei da biblista come immagina l’aldilà?
«L’immortalità dell’anima nella Bibbia quasi non c’è. C’è la ri-creazione dell’essere intero: la visione di Ezechiele».
Gli scheletri che tornano in vita.
«Nel Cristianesimo la risurrezione della carne è centrale. Io non ho un corpo; io sono un corpo».
Gesù resuscita Lazzaro, diventa popolarissimo, entra trionfalmente in Gerusalemme, e il Sinedrio lo fa uccidere.
«Ma la risurrezione di Gesù non è la stessa di Lazzaro, che rinasce alla vita per poi morire di nuovo. Risorgere non è rianimare un cadavere. La Bibbia usa tre verbi greci: egheirein, che significa risvegliare; anistemi, che significa levarsi in piedi; e hypsoun, che indica l’ascensione all’eterno e all’infinito. Rilke pensava la morte come l’altra faccia della vita, rispetto a quella rivolta verso di noi. La filosofia moderna non esclude affatto la possibilità di superare le frontiere del tempo e dello spazio, ed entrare nell’eterno e nell’infinito».
Ma Gesù dice pure che nell’aldilà non ci saranno né moglie né marito, né fratello né sorella.
«Lo dice per confondere i sadducei, che volevano farlo cadere in trappola chiedendogli di chi sarebbe stata moglie nell’aldilà una donna rimasta vedova che avesse sposato i sei fratelli del marito. Ma noi, una volta risorti, ritroveremo le persone care dentro una nuova creazione, affidata al Dio dei vivi e non dei morti, come dice Gesù. Una frase che Pascal portava sempre con sé su un foglio cucito nel suo abito, con un breve commento intitolato Fuoco».