La Lettura, 16 giugno 2019
Un libro che si intitola Un bel niente
Si tratta di un canzoniere che ha, a tutta prima, un titolo (Il bel niente) che pare voglia scancellare su la poltrona più distante dal salotto gozzaniano gli avanzi del sublime. Di ogni possibile sublime. Di ogni abusato tentativo ontologico. Invece, pagina dopo pagina, ci accorgiamo che Il bel niente non è altro che l’inizio di una serie di titoli (gli stessi delle poesie che compongono questa raccolta di Piero Salabè, La nave di Teseo) dall’effetto di epitaffio; infatti sono tante epigrafi (le tombe sono letti) poste come tante croci d’amore nel camposanto di un canzoniere che ha sapienza letteraria e astuzia del sentire per mettere in gioco Francesco Petrarca, Guido Gozzano, Gabriele d’Annunzio, Sandro Penna, Eugenio Montale… E i baci, la ripetizione intima e spasmodica della parola baci produce un vortice immobile che assomma fantasmi di donna a fantasmi letterari.
I baci di Salabè sono lanciati contro uno specchio e producono l’impudicizia somma, in altri tempi dichiarata dal regista francese Godard. E insieme producono l’effetto delle rose di plastica per un Eden letterario ma che ha memoria della Ermione vegetale e amniotica del d’Annunzio musico della Pioggia nel pineto: «voglio conoscerti/ con meno parole/ con più silenzio// deporre il manto nervoso/ della poesia// cercarti lontano/ dove silenziosa riappari/ nella radura di un bosco/ perduto// spiarti/ dietro a un albero secolare// e muto scoprire che sei estinta/ nella luce silente».
I baci di questo canzoniere misurano lo spazio e il tempo; sono pendolo e fissità.
Sono calendario dei giorni. Sono bussola e stella polare. Intercettano perfino l’ora nella quale sono stati donati o ricevuti: «ci siamo baciati l’8.5./ dalle 17:15 alle 17:50/ e il 9.5. dalle 10:45/ alle 12:25».
Nel gioco di portare alle estreme conseguenze la sfida provocatoria al sublime, Salabè non si vieta neppure l’epigrafe pubblicitaria più virtuale possibile: tremo davanti a un fiore. In realtà anche il tu montaliano, quando è l’ora, viene occupato dal sentimento del sangue, della perdita e del corpo che ricorda Antonio Machado e Juan Ramón Jiménez (non a caso Salabè ha il controllo della lingua e della letteratura spagnola, oltre alla tedesca e all’inglese delle quali ci offre sipari in Il bel niente): «ma ho perso/ sono perso// il mio sguardo prende fiato/ in qualsiasi parte/ tranne in te// e grazie a te/ fugge in cielo/ innocente// sfiorando dal fiore/ sento la morte// e mi difendo/ con parole straniere/ dalla tua vicinanza/ dal terrore dell’amore// dalla pelle troppo sottile/ del primo suono».
Salabè è nel canzoniere; però ogni donna angelicata, musa, dualità, pian piano si piegano alla letteratura, e non solo nella disinvolta e genetica tecnica che butta via le pause ortografiche per cercare costantemente il proprio inderogabile suono, e non solo nella capacità «facile» di usare e piegare le figure retoriche, bensì nella fiducia che se il canzoniere (d’amore) è ancora possibile, non può prescindere da: «il mio male è/ l’intelligenza». Oppure, sta nello svelamento della verità: «parole io vi amo».
Il bel niente è un canzoniere che distende lo schermo dell’amore per concentrare ogni altro canzoniere (o brandello d’esso) funzionale al progetto della lingua. A ciò non sfugge neppure Sandro Penna: «ché nella notte stellare/ è caduto il pudore/ e in ogni cosa risplende/ il nome amore».
A pagina 199 emerge Charles Baudelaire. Eugenio Montale appare e scompare. Se Musa va fatta risorgere, egli è la Musa di Salabè.
Intanto si va insinuando il sospetto che il gioco d’amore, oltre a essere eminentemente letterario, combini e scombini il femminile e il maschile. È il caso che il discorso riguardi in psiche figlio-madre di sottile appartenenza a Umberto Saba. Oppure è legittimo che i baci dallo specchio tornino a sé, al maschio-femmina che ci portiamo mischiato negli ardori e nella oscurità: «in quell’infinito luogo oscuro/ mi sento solo e luminoso/ di amore puro».
Dunque c’è molto e molto sublime scaraventato in un irto giardino di fiori che muoiono presto o resistono come presenze tombali. E sempre un altrove poetico che invece è trapiantato già in apertura di libro.
Mi picchiettava in testa il nome di Giuseppe Ungaretti. Proprio perché Allegria di naufragi è poema che dalla morte resuscita in vita. Quindi per superiore ragione va annoverato tra i grandi canzonieri d’amore. Allora ecco che i versi di Ungaretti ( «La morte/ si sconta/ vivendo») a pagina 149 de Il bel niente si parafrasano in un dolore costante che non va dichiarato se non con la sottrazione o l’addizione delle parole: «la morte/ si sconta/ non morendo».
Se la nostra lettura era iniziata con la chiave di accesso dei baci-epigrafi, non potevamo trovare più esemplare conferma nell’epitaffio finale (ultima poesia del libro) che nel titolo, frase fatta, prova l’ironia; invece Salabè è costretto come noi a procedere nella vita identica a una pagina bianca: «le parole/ sono poco/ più del nulla// ma anche il nulla/ ricorda/ è cosa fasulla».