La Lettura, 16 giugno 2019
Racconta storie e mangia gessetti. Ma è un uomo?
Occorre un libro intero, occorrono tredici capitoli, tredici passi, per provare a rispondere alla domanda che Mo Yan piazza nelle prime pagine: «Eri un uomo o un animale? Se eri un uomo perché stavi chiuso in gabbia? Se eri un animale perché parlavi? Se eri un uomo perché mangiavi i gessetti?». Tredici passi per rispondere, anzi I tredici passi, il romanzo che chiuse gli anni Ottanta dello scrittore cinese, premio Nobel nel 2012: anni che nella Repubblica Popolare coincisero con la prima fase «delle riforme e dell’apertura» di Deng Xiaoping, le premesse del boom successivo, un tempo sideralmente distante dalle violente intemperanze della Rivoluzione culturale ma già oltre la monocroma stagnazione che seguì brevemente la morte di Mao Zedong (1976). E furono anni di vivace attività intellettuale e artistica, con fiammate capaci di sorprendere le autorità.
È figlio di questo clima I tredici passi, che uscì nel 1989, l’anno della repressione delle proteste studentesche della Tienanmen, e che adesso Einaudi propone nella traduzione di Maria Rita Masci. Al romanzo viene riconosciuta l’audacia dei lavori sperimentali, e audace e sperimentale appare l’impianto di una storia fatta del concatenarsi di episodi che compongono, scompongono e ricompongono la «verità». I singoli frammenti del racconto sono quasi figure autonome. E infatti, più che l’affannata costellazione di personaggi che animano l’intreccio nei suoi strappi e nelle sue pause, protagonista sembra piuttosto il narratore «seduto sul trespolo all’interno della gabbia».
È il narratore a costruire la realtà cominciando a rivelare la morte improvvisa che stronca il professore di fisica Fang nella scuola dov’era rispettato; subito le sue parole si allargano al collega e vicino di casa, alla moglie, alla «truccatrice per defunti delle pompe funebri» Li, e così via, in una forsennata girandola di visioni, sogni, racconti nel racconto, dove scorrazza l’immaginario turgido e barocco che è un po’ la cifra di Mo Yan: «Gli insegnanti di cinese pisciano caratteri, cagano temi» e, «poggiato su un vassoio smaltato, il bisturi sembrava una penna di corvo», mentre «le automobili si infilavano nel primo buco che trovavano, come topi inseguiti dai gatti»...
Il lettore si sente libero, chissà se a ragione, di azzardare interpretazioni. Che il narratore in gabbia, nella sua oralità incarnata, rappresenti lo scrittore prigioniero delle proprie storie o del ruolo sociale. Che siano queste le esequie di una narrativa edificante, al servizio della propaganda, e della piana struttura imposta dal realismo socialista. O, addirittura, che l’atto del raccontare, il «torbido flusso delle parole del narratore», sia intrinsecamente eversivo, votato a rovesciare l’ordine del mondo (il tredicesimo passo del passero che cambia tutto...). La scuola sullo sfondo, poi, sembra alludere a una società forzata alla trasformazione.
Gerarchie sovvertite, sicurezze travolte. Mo Yan attinge al familiare repertorio di metamorfosi e rispecchiamenti (tu, noi; lui, l’altro), a credenze tradizionali e a una numerologia che detta la scansione dei capitoli (qui 13, come ne I quarantuno colpi sono 41). Persino la frenesia delle persone desiderose di arricchirsi sembra un’ulteriore metamorfosi di necessità e pulsioni eterne: la fame, l’amore, il sesso. In coda riaffiora il sospetto che il narratore voglia abbattere la parete di carta e inchiostro fra sé e il lettore: «Con un sorriso subdolo, ci chiamasti dentro la gabbia... e alla fine, eccoci chiusi nella gabbia con te». Nel finale la voce si spegne, quasi un invito alla consunzione estrema: «In silenzio contammo i tuoi passi: 1... 2... 3... 4... 5... 6... 7... 8... 9... 10 11 12». Silenzio.