La Lettura, 16 giugno 2019
Indemoniati
Facevo la seconda media a Serra San Bruno (Vibo Valentia) e, nel giorno di Pentecoste del 1962, non andai a scuola. Con altri compagni mi recai alla vicina Certosa di San Bruno di Colonia e da lì raggiunsi a piedi Santa Maria del Bosco e il laghetto dentro il quale il santo si immergeva per pregare, la chiesetta che portava i segni del terremoto del 1783, una grotta dove il santo faceva penitenza. Fu attorno a questo luogo sacro, in cima a una breve gradinata, che vidi una folla urlante e, dentro alla grotta con una statua del santo, vidi la spirdàta che urlava, blaterava, mormorava parole incomprensibili, cercava di sollevarsi in alto, mentre i familiari tentavano di coprirla e tenerla ferma. Sentivo pena e sgomento: poi la donna si calmò, smise di agitarsi e, con i familiari e altre persone, andò a bagnarsi nel laghetto dove il santo sembrava attenderla. Era una delle ultime protagoniste di un «dramma» che, in quegli anni, Ernesto De Martino aveva modo di osservare e descrivere come un «relitto» del passato, che andava conosciuto, ma superato. Nell’articolo del 1960 Purificazione di giugno, poi pubblicato in Furore, simbolo e valore, De Martino diventava sorprendentemente riduttivo e si limitava a spiegare, ricorrendo a categorie psicopatologiche e storico-religiose, un fenomeno che richiedeva maggiore approfondimento.
Dieci anni dopo visitai una zia colpita da ictus e ricoverata nell’ospedale di Vibo Valentia. Nel lettino a fianco c’era una ragazza di Fabrizia, vicino a Serra San Bruno, che era in cura su consiglio dei monaci certosini cui si era rivolta e creava non pochi problemi. La giovane, mi confidò un medico, parlava lingue straniere, si sollevava dal letto fino al soffitto, urlava e doveva essere legata. Mi strinsi le spalle. Quelle anime inquiete, «possedute», spirdàte non trovavano più cura attraverso rituali, saperi e modelli che avevano funzionato per secoli e che adesso non venivano più eseguiti dai certosini se non in casi eccezionali. Ogni tanto mi arrivava notizia di qualche spirdàto che cercava guarigione bussando alla Certosa del santo di Colonia, ma i certosini li mandavano dai medici. Gli spirdàti a volte tornavano, come segnalava il «Giornale di Calabria» il 25 marzo 1992: un evento da cui Tonino Ceravolo prese spunto per scrivere uno dei più problematici e documentati libri sulla possessione in Calabria. Al lavoro di Ceravolo Gli spirdàti, ripubblicato e aggiornato (Rubbettino, 2017) con una bella prefazione di Giovanni Pizza, sono tornato dopo avere letto il volume Il diavolo in corpo (Meltemi). Il libro si presenta come «un’antologia minima» e raccoglie scritti, sinora inediti in italiano, di Aihwa Ong, Jean-Pierre Olivier de Sardan e Janet McIntosh. Sono ricerche etnografiche relative a contesti extraeuropei, come la Malaysia e il Niger, che considerano le funzioni religiose, sociali, politiche e terapeutiche della possessione (in realtà non «diabolica», come invece suggerisce il titolo del volume).
Il curatore Moreno Paulon segnala come l’interesse per la possessione nasca dal suo essere «irriducibilmente esotica» e dalla «curiosità verso una pratica che coinvolge comportamenti individuali e sociali talmente plateali ed eccezionali da essere percepiti come una devianza anche all’interno di uno stesso gruppo culturale». Lo studioso evidenzia, a ragione, la necessità di un approccio poliedrico, perché i culti di possessione possono assolvere varie funzioni, come «confermare o ridiscutere l’equilibrio di potere fra i sessi, consacrare un’identità nazionale, legittimare una famiglia regnante, o ancora esprimere una sofferenza di classe, consolidare un sistema morale, orientare decisioni politiche, indicare alleanze matrimoniali». L’intento esplicito di Paulon è, perciò, presentare «tre punti di vista differenti, e talvolta discordi, sul fenomeno della possessione, con il proposito di contribuire ad arricchire e diversificare questo ramo di ricerca in seno all’antropologia culturale italiana». Ciò scaturisce da quello che appare al curatore una sorta di peccato originale degli studi antropologici prodotti in Italia: il lascito teorico di Ernesto De Martino, a causa del quale sarebbero state lasciate in ombra «teorie e interpretazioni, diverse aree geografiche, forme culturali presenti presso altre società».
Tuttavia, se di De Martino si riconosce la statura intellettuale, con De Martino occorre fare i conti. Così come appare necessario misurarsi realmente con il panorama italiano degli studi sulla possessione, che non è da liquidare relegandolo in poche righe al tarantismo, allo storicismo di Benedetto Croce, al concetto di crisi della presenza. E il confronto con De Martino e gli studi italiani non può ritenersi autentico, se persino nella bibliografia di chiusura – autodefinita «estesa» e «a beneficio degli studi a venire» – si ignorano non solo tali studi, ma addirittura si omette lo stesso De Martino, del quale non si citano né i fondamentali lavori legati all’area salentina né le indagini più circoscritte condotte in Calabria, poi utilizzate da altri studiosi come presupposto per ulteriori ricerche. Basterebbe pensare, riferendosi a un testo ormai classico (Il ponte di San Giacomo di Luigi Lombardi Satriani e Mariano Meligrana, Sellerio), a quanto si sia mosso nella ricerca italiana in parallelo alle indagini di De Martino che hanno portato a feconde distinzioni (quella tra la possessione da spiriti e la possessione da demoni) e che hanno fatto focalizzare l’attenzione verso una costellazione «universale» di problemi connessi all’ideologia della morte, al pericolo costituito dal ritorno «irrelato» dei defunti, alla questione dell’aldilà folklorico. Proprio da questo nodo sono scaturite ricerche, quali quelle di Pizza e Ceravolo, che si sono misurate con il vasto dibattito, che va almeno da Mircea Eliade a Carlo Ginzburg, intorno ai temi dell’estasi e della possessione, sfociato in Italia anche nel riconoscimento di una forma denominata da Cristiano Grottanelli, sin dal 1991, «possessione europea».
In particolare, Ceravolo, nel già citato Gli spirdàti, rifacendosi a Ginzburg e valutando in maniera critica l’analisi di De Martino, ha messo in rapporto la possessione da spiriti di area meridionale con fenomeni analoghi diffusi in vaste aree dell’Europa orientale, evidenziando i nessi tra santità taumaturgica, credenze presenti nelle culture popolari europee, pratiche religiose e costruendo un ampio quadro comparativo. Costante è stato, d’altra parte, il lavoro su questi temi di Pizza, che ha utilizzato i motivi folklorici dell’utero-ragno e dell’utero-rospo collegando «l’interpretazione dei racconti in cui un animale fuoriesce dal corpo ai fondamenti corporei della possessione, all’esperienza del sogno e (…) alla fisiologia simbolica femminile» e presentando il fenomeno della possessione europea come una «nozione aperta», in grado di spingere verso nuove analisi comparative. Siamo ben oltre un’antropologia italiana sulla possessione rinchiusa negli esclusivi recinti del «demartinismo» e capace di guardare solo sé stessa.
È da ripensare una «via italiana» allo studio antropologico della possessione ed è da riconsiderare l’attenzione costante dell’antropologia postdemartiniana, nel quadro di un rinnovato sguardo scientifico sulla «medicina popolare». Semmai è questa antropologia che si rivela aperta a guardare dentro e fuori, lontano e vicino, ed è in grado di mettere a fuoco quanto accade da noi proprio nel periodo in cui, peraltro, gli altri sono tra di noi. Forse il rischio è quello inverso: chi pensa sempre che l’antropologia sia quella che si rivolge lontano da noi, non fa che precludersi la conoscenza di quanto avviene a casa nostra, che casa diventa anche di chi arriva. Un attento ripensamento, forse, porterebbe a non considerare la possessione un fenomeno «irriducibilmente esotico» e a non parlare di «diavolo in corpo» per casi che, come mostrano gli autori dei saggi, senz’altro da leggere, in realtà raccontano di possessione di «spiriti». Forse bisognerebbe abbandonare distinzioni desuete tra «sguardo da lontano» e «sguardo da vicino». Nel momento in cui milioni di persone si spostano ed altri milioni restano, forse dovremmo cercare di capire dove sono andati a finire, come vivono e sono curati quelli che un tempo erano gli spirdàti e che oggi, invece, sono cancellati, rinchiusi, reclusi. Forse bisogna ripartire dagli ultimi di tutto il mondo ed elaborare nuove forme di ricerca, interrogandoci su quei «tristi tropici» che oggi non sono solo altrove, ma soprattutto qui da noi.