La Lettura, 16 giugno 2019
I musulmani in Italia
Esistono vuoti di memoria nella storia d’Italia? La risposta è sì. Soprattutto se si guarda al Mezzogiorno e alla Sicilia tra IX e X secolo. Meglio di tutti se n’è occupato Michele Amari, nell’Ottocento. In seguito, pochi altri, per lo più stranieri. Agli italiani questa storia è piaciuta meno, come se un paradigma culturale avesse quasi imposto di disinteressarsi ad essa, reputandola a lungo materia di scarso appeal, da recuperare solo quando l’Europa cala nel Sud, con i normanni.
Con questa premessa, molte particolarità quasi scompaiono. In particolare, quasi sparisce l’Italia più scomoda, musulmana di religione, che diventa quasi un accidente della storia, cui dedicare poche righe. E si dimentica come, dietro di esse, esistano generazioni che hanno prodotto e costruito, combattuto, pregato lo stesso Dio da orizzonti diversi. Le cui vite meritano di essere ricordate.
Parte di questo mondo viene raccontato da Marco Di Branco nel suo 915. La battaglia del Garigliano (il Mulino), a iniziare da questo episodio di cui finora si sapeva poco, ma che chiude, in pratica, i cent’anni della presenza fisica musulmana sul territorio italiano, terminata appunto (a parte la Sicilia) nel 915. Sotto questo profilo può apparire un fatto analogo allo scontro di Poitiers, con cui Carlo Martello respinse gli arabi dalla Francia nel 732. Nel caso specifico, più che una battaglia, fu in realtà l’assedio a una cittadella fortificata musulmana, posta sul mons Garelianus, in una zona tra gli odierni centri di Suio e Castelforte, sulle estreme propaggini dei monti Aurunci, presso il fiume Garigliano, nella parte meridionale dell’attuale provincia di Latina. Una fortezza che va intesa come «uno spazio mobile con finalità di colonizzazione e di espansione», da cui far partire scorrerie su un’area che non si limitava alle zone limitrofe: un insediamento «grande abbastanza da poter ospitare, in caso di necessità, non solo i soldati musulmani, ma anche le loro donne, i loro figli, i loro schiavi», piccolo centro di scambi con le cittadine cristiane circostanti, in primo luogo Gaeta e poi Napoli, in una trama di contatti variabili, a seconda degli obiettivi, ora turbolenti e violenti, ora di alleanza e di collaborazione. Una enclave che si inserisce nel grande progetto di una – supposta dall’autore – conquista islamica dell’Italia meridionale, costellata da una lunga serie di vicende a cui Di Branco cerca di trovare un filo conduttore comune.
Di questo assedio si sa poco, se non pochissimo. Avvenne nel 915 e si protrasse per tre mesi, in estate, tra giugno e agosto. Si affrontarono due gruppi armati, più che due eserciti. Da una parte una Lega cristiana, che comprendeva truppe longobarde dei potentati di Capua, Benevento e Salerno, cavalieri napoletani, soldati di Gaeta, gente di Roma «con l’interessata approvazione e partecipazione di Papa Giovanni X». Un elenco del 1014 ci riporta i nomi di alcuni dei capi: Teofilatto, senatore dei romani; Adriano, padre di papa Stefano VIII; Gregorio IV, duca e console di Napoli; Giovanni e Docibile, duchi di Gaeta; i principi longobardi Atenolfo II e Guaimario.
Dall’altra, i musulmani. Già: ma chi erano, da dove venivano? Sono le domande che consentono all’autore di inanellare una dettagliata carrellata di episodi, che si inaugura non sul territorio italiano, ma in Nord Africa. Da qui parte la conquista della Sicilia, cominciata nell’826, cui corrispondono una serie di incursioni lungo la costa della penisola e verso l’interno, che coinvolgono tanto il versante tirrenico quanto quello adriatico. Nell’840 cade Taranto. Ci si scontra per Benevento (847-848). Si attacca la longobarda Capua. Bari diventa il polo islamico per eccellenza, sede di un emirato contro il quale si muovono addirittura l’imperatore di Bisanzio, Basilio I, e quello franco Ludovico II, fino alla sua caduta, nel febbraio 871.
Si continua ancora, con uno stesso ritmo, cadenzato da scorrerie e da azioni organizzate, come il jihad partito dalla Sicilia e voluto dall’emiro Ibrahim, conclusosi con la sua morte nel 902. Tra queste storie, ce n’è una, scioccante: l’attacco a Roma (846), cui seguirono la fondazione della cosiddetta civitas Leonina e la battaglia di Ostia dell’849, forse, secondo l’autore, mai avvenuta e solo «una reduplicazione storiografica di avvenimenti precedenti». Con buona pace di Raffaello, che la riprodusse nelle Stanze vaticane, e del suo committente, papa Leone X.
Attacchi e aggressioni frequenti. Con la partecipazione musulmana, diretta o indiretta, agli scontri in atto tra potentati locali cristiani, i quali si servirono con frequenza, per le loro mire, dell’aiuto delle forze islamiche, senza grandi pregiudizi se non quello dell’utilità. Con le posizioni ambigue di Amalfi e di Napoli, ritenute, più che parte della Cristianità, infide, accomunate al mondo musulmano, legate ad esso da impia foedera, patti scellerati. Non è un caso che la formazione della testa di ponte islamica del Garigliano nacque proprio da un’iniziativa del duca di Gaeta Docibile, intorno agli anni Settanta-Ottanta del IX secolo.
Comincia così la vita del castrum, che durerà circa un trentennio. Di cui pure si sa ben poco. Se non che le sue milizie adottassero tattiche tipiche della guerriglia di frontiera «il cui fine strategico non era la conquista permanente ma l’intimidazione del nemico e il saccheggio». E praticassero il commercio, in una rete che andava, con tutta probabilità, da Gaeta fino a Salerno e si congiungeva alla Sicilia. L’insediamento muore nell’agosto del 915. Non con una strage. Più plausibilmente con un accordo tra assedianti e assediati, che permise ai sopravvissuti di lasciare la fortezza, non prima di averla bruciata e distrutta.
Di Branco riporta alla luce una storia appassionante, che si regge su un’analisi filologica davvero accurata. Però sul libro grava un difetto: che l’autore si fa trascinare troppo da un’impostazione ideologica che ne danneggia la natura. Da un punto di vista sostanziale, nell’insistere sul concetto di una strategia generale di conquista musulmana del Sud, che, se vi fu, ebbe portata effimera, considerato che le enclaves furono poche, piccole, immerse in un’ecumene cristiana; senza contare la brevità, dal momento che nessuna di esse superò i trent’anni di vita. E da uno formale, nel ritenere la vittoria cristiana sul Garigliano come un evento cruciale per la memoria collettiva. Essa, invece, non ha niente che sia rimasto impresso nelle menti dei posteri. In questo senso è diversa da Poitiers o dalla battaglia di Las Navas di Tolosa, del 1212, punto cruciale della Reconquista spagnola, perché non appartiene, per usare un linguaggio caro all’autore, al nostro tessuto identitario.
D’altronde, per rimanere ai fatti, se in Italia i musulmani, dopo il 915, uscirono, per così dire, dalla porta con la sconfitta militare, rientrarono dalla finestra, attraverso un soft power economico che si tradusse, a partire proprio dagli stessi decenni del secolo, nell’afflusso di migliaia e migliaia di monete d’oro siciliane e nordafricane (il famoso tarì) in tutto il Mezzogiorno. Cartina di tornasole di un predominio commerciale e di un monopolio monetario che comincia negli stessi anni della sconfitta del Garigliano e prosegue ancora nei due secoli successivi; e che fece da stimolo al decollo del Sud. Che ha un polmone: la metropoli siciliana di Palermo, essa sì davvero centrale nella proiezione mondiale di allora.