la Repubblica, 16 giugno 2019
Intervista a Benedetta Cibrario
È una delle sorprese del premio Strega, Benedetta Cibrario. «No, in effetti non mi aspettavo un successo di questa grandezza». Cinquantasette anni, una passione per Dickens, una casa a Londra, dove vive da anni e dove hanno studiato i suoi figli. Sorrideva molto qualche sera fa durante la semifinale. L’ambiente editoriale è pieno di spifferi e lei sapeva evidentemente che il suo romanzo Il rumore del mondo (Mondadori), intessuto di amori, tradimenti, speranze e rivolte sullo sfondo del Risorgimento, stava riscuotendo molti apprezzamenti. Però non aveva messo in conto lo smottamento che avrebbe provocato. Nessuno immaginava che sarebbe arrivata seconda, facendo slittare al terzo posto Fedeltà (Einaudi) di Marco Missiroli, dato fino a qualche mese fa come superfavorito. Il risultato è stato un podio dominato da due romanzi storici. Comodo in cima, a più di cento punti dagli altri due, M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, edito da Bompiani. Due libri fluviali, quello di Scurati e della Cibrario, entrambi basati su una grande mole di documentazione storica, che a quanto pare non ha scoraggiato i 660 giurati italiani e stranieri. Il rumore del mondo narra la storia dell’inglese Anne Bacon, arrivata a Torino come moglie di un ufficiale piemontese e lì travolta dal vento di un mondo in trasformazione. Come valuta il rinato interesse per le trame storiche? «Non mi stupisce, la conoscenza della storia tiene sveglie le coscienze. Non è solo affascinante, ma è uno strumento di indagine e scavo nella realtà». Per questo ha firmato il manifesto lanciato su Repubblica per la difesa della storia? «Mostrando scogli, sconfitte, sciagure del passato, la storia ci dà le chiavi di lettura per capire il presente. È una guida, ci aiuta ad evitare di ripetere gli stessi errori. In Inghilterra, dove vivo, la laurea in storia è tenuta in grandissima considerazione, è il piedistallo più saldo su cui costruire le carriere. Inoltre i romanzi storici sono molto amati dagli inglesi. Ricordiamoci che Hilary Mantel ha vinto due volte il Booker Prize (con Wolf Hall e con Anna Bolena, una questione di famiglia, i primi due libri della trilogia dedicata a Thomas Cromwell, ndr ). Il suo romanzo si svolge tra il 1838 e il 1848, cosa l’ha attratta di quel periodo? «È in quel decennio che siamo diventati quello che siamo. In quel periodo si forma una consapevolezza politica moderna, si avverte la necessità di un rinnovamento in tutti i campi. Sono anni percorsi da una forte esigenza di modernizzazione. Nasce allora una borghesia imprenditoriale, si affaccia nelle città la classe operaia, si cominciano a mescolare i ceti sociali, i soldi acquistano importanza, viene riformato il codice civile e penale, si formano i primi comizi agrari, il dibattito politico si sposta sui giornali». L’urbanizzazione è il grande sfondo su cui si muovono anche le storie di Dickens. «Sono una grande lettrice di Dickens. Era un polemista pazzesco, i suoi romanzi sono percorsi da un forte sentire politico. Credo che la letteratura sia anche militanza». In realtà il suo romanzo è in bilico tra vecchio e nuovo mondo e per alcune atmosfere ricorda il “Gattopardo”, vincitore dello Strega nel 1959. «Racconto la Torino da cui veniva il funzionario regio Chevalley per tentare di convincere il principe di Salina a scendere in politica. Una città in fermento, che aveva conosciuto un primo processo di modernizzazione già in età napoleonica». Il suocero di Anne, il marchese Casimiro Vignon, è un vecchio reazionario. «Casimiro non è chiuso al futuro, si lascia sedurre dalla nuova mentalità imprenditoriale. Anche il re Carlo Alberto è costretto a prendere atto dello spirito dei tempi. Cavour, D’Azeglio, Cesare Balbo gli fanno capire chiaramente che senza concedere cambiamenti sarebbe andato tutto all’aria». Anne domina la scena. Una donna che non si piange addosso. «Il suo è un coraggio quieto, non passivo. Cerca di capire la realtà che le si muove intorno e agisce di conseguenza. Quando il romanzo inizia ha 19 anni, è giovanissima. La vediamo in viaggio verso l’Italia, dove l’aspetta il suo sposo. Ha perso tutto: il cognome, la patria, e a causa del vaiolo anche il viso. Non ha più una sua identità». Si è ispirata a una donna reale? «Mi aveva colpita la storia di una ragazza inglese che dopo aver ereditato dal nonno banchiere una grande fortuna era diventata amica di Dickens e aveva iniziato a usare quel denaro per aiutare i poveri e promuoverne l’istruzione». È questo il “rumore del mondo” a cui allude il titolo, è la musica del cambiamento? «È il rumore di un risveglio politico, è il rumore che fanno i telai delle manifatture, ed è anche il rumore dei pensieri, delle speranze». Quale le sembra il suono dei nostri giorni? «Oggi c’è solo fracasso. Nel rumore ancora si distinguono i suoni, mentre dentro al fracasso non si sente niente».