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 2019  giugno 16 Domenica calendario

Biografia di Zeffirelli (in morte)

Giuseppe Videtti su Repubblica
BERLINO – La Germania ha sferrato un’offensiva in grande stile per trasferire più “dublinanti” possibili in Italia, cioè quei profughi che secondo le regole Ue dovrebbero essere trasferiti nei Paesi di primo approdo. E se i porti restano chiusi, come Matteo Salvini ricorda quotidianamente, gli aeroporti non lo sono affatto. Secondo i dati più aggiornati del ministero del suo omologo tedesco, Horst Seehofer, le richieste di trasferire profughi in Italia sono in vertiginoso aumento. Nel primo trimestre del 2019 sono state ben 4.602, il 33% del totale delle domande fate arrivare a tutti i partner Ue. Soprattutto, un boom del 50% rispetto al trimestre precedente (tra ottobre e dicembre erano state 2.979 le richieste a Roma, il 25,4%). Ma anche gli “ok” del ministero di Salvini a Seehofer stanno crescendo: 3.540 tra gennaio e marzo contro i 2.629 del periodo precedente. E i trasferimenti effettivi? Avvengono a ritmo regolare: sono stati 1.114 tra novembre e marzo, 557 a trimestre, il 28% circa del totale. Tanto che nella recente conferenza dei ministri dell’Interno dei Land, il Baden- Wuerttenberg ha chiesto che riprendano anche quelli via charter, quelli scoperti da Repubblica nell’estate del 2018 e sospesi per un po’. Peraltro, sempre secondo i numeri ufficiali del governo aggiornati a qualche giorno fa, a Salvini non è convenuto affatto il rifiuto di sottoscrivere l’accordo bilaterale che Seehofer ha firmato ad esempio con la Grecia, sempre l’estate scorsa. Il nostro ministro dell’Interno aveva sempre tuonato che l’intesa sarebbe dovuta avvenire “a somma zero”, insomma per ogni “dublinante” accolto, uno sarebbe dovuto partire. E invece, da allora i rifugiati che vengono trasferiti dalla Grecia alla Germania per esempio per ricongiungimento familiare sono molti di più di quelli che tornano nel Paese ellenico. Per l’Italia è vero il contrario: la somma è pesantemente negativa. Tra gennaio e marzo, a fronte di 557 trasferimenti all’Italia, verso la Grecia ne sono avvenuti 4. Viceversa, Berlino ha accettato dall’Italia 45 trasferimenti, neanche un decimo di quelli rispediti nel nostro Paese. Dalla Grecia, nello stesso periodo sono arrivate in Germania in maniera del tutto legale 271 persone: fare accordi con Berlino conviene. Ultima annotazione: l’"amica” Ungheria, nel periodo coperto dai dati di Seehofer, è riuscita invece, purtroppo, a mantenere la promessa sovranista di Viktor Orban: zero trasferimenti. I dati del ministero, aggiornati al 6 giugno, risultano da un’interrogazione parlamentare di Ulla Jelpke (Linke) e altri colleghi di partito. La risposta del governo alla sua lunga richiesta, 36 pagine, è una miniera d’oro. Da cui emerge l’ipocrisia della propaganda salviniana. E anche il sospetto che sia ricominciata la prassi di non prendere le impronte dei profughi e dei migranti che arrivano in Italia e vogliono raggiungere l’Europa del nord, in modo da non farli risultare come “dublinanti” italiani. Dal testo emerge infatti che la sospensione di Schengen alla frontiera tra la Germania e l’Austria che tante polemiche aveva suscitato nell’estate 2018, è stata prolungata ancora, l’11 maggio scorso. Il motivo è che gli arrivi sono “ancora troppo alti": circa 950 al mese nel periodo che va da novembre 2018 a febbraio 2019. Certo, 600 son stati respinti al confine, ma Seehofer aveva già fatto notare di recente che di 42.500 arrivi irregolari nel 2018, oltre un quarto, 11.500 arrivavano dalla frontiera austriaca. Il ministero osserva che si tratta del confine «più rilevante per l’immigrazione irregolare». E sono flussi che provengono soprattutto da due Paesi: Italia e Grecia. Le riammissioni L’accompagnamento di migranti nell’aeroporto di Monaco. Nello scorso inverno ne sono stati rispediti in Italia quasi 1.200

Francesco Merlo su Repubblica

T utte le volte che parlava di Dio io chiudevo gli occhi e vedevo mio nonno, un buon vecchio sorridente in maniche di camicia, il Padre Eterno comprensivo con il quale sono cresciuti gli italiani e che alla fine prese la sua stessa faccia, quella del narratore di storie, sempre allegro, con la sigaretta che gli pendeva morbidamente dalle labbra mentre parlava delle bellissime cose che aveva fatto e di quelle meravigliose che avrebbe fatto.
Franco Zeffirelli era di destra, ma migliore di tanti di sinistra perché «non scriveva lettere aperte ai giornali della sera», non firmava appelli, si sapeva vestire, leggeva davvero invece di sfogliare, gli piaceva l’ordine ma non invocava prefetti di ferro e comandanti, provava a convincere e mai a stravincere, e usava e abusava delle mani come fosse un meridionale, «perché ho un rapporto fisico con la parola» mi spiegò una volta. Credeva, come un greco, nel pensiero manufatto, argilla da modellare, quello delle sue scenografie dove le mani del cattolico mettevano sempre più di quel che serviva. Il suo parlare con le mani era il barocco delle nostre chiese che tanto amava, le linee curve del Brunelleschi fiorentino, l’umanesimo arcuato di Santa Maria del Fiore contrapposto alle linee dritte dei calvinisti e dei protestanti, alla verticalità di Bergman e di Kubrick che pure gli piacevano tanto. Persino la sua omosessualità rimandava alla morbidezza della cupola anche quando andò di moda la sfacciataggine acuminata di Fassbinder.
Indimenticabile è la rotondità spirituale del suo Fratello Sole, un San Francesco così lontano dall’ascetismo appuntito di Rossellini.
Certo, era sfarzoso e qualche volta anche lezioso, ma sempre concreto come i neorealisti con i quali aveva debuttato (insieme a Francesco Rosi ne La Terra trema) e di cui era erede e traditore, proprio come Luchino Visconti che fu il suo vero maestro non solo nel cinema ma anche nell’opera e fu il suo tormentato modello pure nella vita: Visconti disperato e Zeffirelli ottimista, il maestro aristocratico di nascita e l’allievo aristocratico di formazione e chissà chi imitava chi quando vissero insieme. Ed è vero che era ridondante, ma sapeva arrivare all’osso di Shakespeare meglio degli anglofili fumo di Londra che hanno appesantito il teatro e il cinema. I suoi Giulietta e Romeo, La bisbetica domata e alla fine L’Amleto, sono capolavori di gusto italiano, riletture italiane. In questo Zeffirelli è unico: nella rilettura italiana che è una cultura figurativa, con le facce mediterranee, il ritmo, i movimenti, i gesti, l’amore italiano di Romeo e Giulietta che erano i nostri ragazzi che non capivano il mondo. Era il 1968 e quel film fu il suo Sessantotto. E ovviamente non fu compreso perché non era engagé ma poetico. Eppure era il film di «fate l’amore, non fate la guerra», fantasioso e irriverente come le minigonne, come la liberazione sessuale, con due attori sconosciuti, sempre irrispettoso del testo ma con la grazia accuratissima dei Piero Tosi, dei Tirelli, dei Pizzi, dei sarti e dei costumisti italiani, il mondo nel quale faceva comunella. Zeffirelli era infatti la bellezza del classico, il dolce stil nuovo: "dolce stile" in senso toscano e nuovo perché sempre meravigliava senza mai provocare. Mai Zeffirelli avrebbe ambientato la Norma di Bellini nella Francia nazista, o avrebbe ricoverato nei manicomi, o avrebbe trasformato Puccini in un parisien dell’anno Tremila.
E diciamo la verità: ci accorgiamo che era vivo solo adesso che è morto. Abbiamo infatti uno strano modo di onorare i nostri grandi vecchi. È vero che dieci anni fa, finalmente, era riuscito a creare il suo museo, un luogo per tramandare la memoria, ma non trovava più produttori e non solo perché era malato. L’ultimo film era del 2002, il grande omaggio alla Callas, che era la grande amica che solo lui era riuscito a riportare sulle scene per una Tosca a Londra. Gli piaceva infatti il colpo di scena, il grande spettacolo, il cartellone dei vivi, quelli di un tempo che erano bravi come lui: Filumena Marturano interpretata a Londra da Joan Plowright, la moglie di Laurence Olivier; la lupa da Anna Magnani; la bisbetica Liz Taylor domata da Richard Burton; e L’Amleto a teatro con Albertazzi e al cinema con Mel Gibson; e per il Gesù chiamò tutti i più grandi, Laurence Olivier, James Mason, Claudia Cardinale, Rod Steiger, Ernest Borgnine... con un tocco di perfezione nella Maria Maddalena interpretata da Anne Bancroft, la torbida calza di seta che aveva imprigionato, insieme al Laureato Benjamin, i maschi di tutto il mondo. Certo, a volte l’amore per l’eccesso gli prendeva la mano. Ma gli perdoniamo tutto, anche quella scelta così lontana da noi, quando orfano della Dc ci lasciò cadere, come un omino volante di Chagall, nel meno zeffirelliano dei mondi, quello volgare di... (provate a indovinare).


Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera

Franco Zeffirelli era un uomo bello, meritatamente ricco, di successo internazionale, ma abitato da un’ossessione: non si sentiva amato ed elogiato dalla critica come era convinto di meritare. La sua colpa, diceva, era aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell’imperatore.

Franco Zeffirelli era un uomo bello, meritatamente ricco, di successo internazionale, ma abitato da un’ossessione: non si sentiva amato ed elogiato dalla critica come era convinto di meritare.

La sua colpa, diceva, era aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell’imperatore. «Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo» e qui gli uomini di casa Zeffirelli acceleravano il ritmo di pulitura dei suoi sette cani, «però, insomma, proprio comunista no. Ricordo quando giravamo “La terra trema”. Vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 1947 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell’acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che avrei poi usato per tutta la vita, Hammam bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno dopo. Poi il “comunista” Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo».

Franco Zeffirelli amava ricevere nell’archivio della sua villa sull’Appia. Marmi, mosaici, colonne facevano pensare alla villa di Capri dove Axel Munthe visse i suoi amori davanti al panorama caro a Tiberio, però Zeffirelli si schermiva: «Macché. Lei dovrebbe vedere piuttosto la mia casa di Positano», già appartenuta a Nureiev e poi venduta a Berlusconi. Negli scatoloni custodiva i segni di una vita senza confronti per varietà di orizzonti artistici e mondiali. Le locandine con le attrici americane e francesi che aveva diretto, da Brooke Shields a Fanny Ardant. Le casse con la scritta: Gesù, Hamlet, Stuarda, Capinera, Callas forever, e anche Inferno («volevo girare la Divina Commedia nelle grotte del Timavo») e Progetto Gerusalemme («l’idea era ricostruire il primo tempio, gli israeliani erano entusiasti, sarebbe stata una grande attrattiva turistica. Poi è scoppiata la guerra»). Altro progetto, San Francesco alle Crociate, a mettere pace tra la cristianità e l’Islam. Da Visconti, però, si doveva partire. Era stato il suo maestro, e il suo amore.

«Non dico abbia sparso il sale per convenienza – diceva Zeffirelli -. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba. La responsabilità è pure di Coco Chanel. Visconti era partito per Parigi con i suoi cavalli. Il campione non conquistò Longchamps, ma il padrone, bellissimo, affascinante, conquistò Parigi. Coco Chanel se ne invaghì, visse con lui una storia molto accesa, e gli parlava di continuo di Léon Blum e del Front Populaire. Importante fu anche l’influenza di Jean Renoir, comunistissimo, che volle Visconti come assistente e lo introdusse al cinema, lui che era cresciuto nel palazzo di famiglia con teatro di corte. Altri invece hanno obbedito al Minculpop comunista per opportunismo. Prenda Picasso: miliardario mascalzone, avido, senza nessun riguardo per gli umili, ha accumulato una fortuna senza mai fare beneficenza in vita sua…».

Era colpa dell’egemonia della sinistra sulla cultura – sosteneva — se la sua autobiografia tradotta in dodici lingue non trovava un editore in Italia, se il suo Giovane Toscanini era stato fischiato a Venezia: «Non sarà stato uno dei miei film migliori, però al Festival non attesero neppure di vederlo, cominciarono a rumoreggiare appena sullo schermo apparve il mio nome. Continuarono per tutto il tempo. Alle 3 di notte, mentre ero solo in camera, distrutto dalla rabbia, davanti a una bottiglia di whisky, ricevetti una telefonata. Una voce amica che mi diceva: “Mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo salvarli da loro stessi, perché non sanno quello che fanno”». Era Silvio Berlusconi.

Solo una volta Zeffirelli ebbe un coro di consensi. Fu quando girò «Un tè con Mussolini»: la storia della sua infanzia e della sua formazione, a cominciare dal nome. Zeffirelli non esiste. Se l’era inventato sua madre, Alaide Cipriani. Franco si definiva «un figlio dell’amore». Il padre si chiamava Cursi ed era sposato con un’altra donna, quando lo riconobbe era già grande. La madre aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. «La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze — raccontava Zeffirelli —. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni. Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary ’O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, che in “Un tè con Mussolini” è impersonata da Cher, la quale saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare. E c’era la moglie dell’ex ambasciatore britannico a Roma, sino all’ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l’Italia dai rossi. Ero molto legato a un professore di diritto romano che viveva nel convento di San Marco: Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso. La Pira non era un pacifista. Fu lui a dirmi di salire sull’Appennino per combattere nazisti e fascisti, ad ammonirmi che bisogna essere pronti a impugnare la spada per difendere Cristo da chi lo nega».

Zeffirelli in effetti è stato un partigiano. Liberale. Che rischiò di essere ammazzato da altri partigiani. Comunisti. «Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano. Un giorno pretesero di disarmarci. Ci salvò un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com’erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia».

Il maestro non riteneva chiusa la ferita della guerra civile e finita la guerra fredda. «Siamo ancora lì. Non sono cambiati. Hanno distrutto il partito socialista. Impediscono all’Italia di diventare una democrazia normale. Alimentano l’oscenità e la stupidità dei centri sociali, finti ribelli figli di veri ricchi; la penso come Pasolini, un altro che aveva sparso il sale ma fu sempre molto carino con me, grande amico e grande scrittore, anche se non grande regista». Benigni? «Me lo ricordo trent’anni fa: faceva i numeri ai tavoli dei ristoranti romani, almeno quelli gli venivano bene. Non ricordo invece un suo film riuscito, tranne forse “Johnny Stecchino”. Di Moretti non saprei dire, nessuno dei suoi film mi è passato oltre le cornee».

Il suo sogno era fare un film – ovviamente costosissimo - sulla rivalità tra Leonardo e Michelangelo. Poteva passare ore a dissertare sui due Rinascimenti fiorentini: l’esplosione quattrocentesca di Brunelleschi, Donatello, Masaccio; il mistero della stasi medicea; e poi la grande stagione dei primi anni del ’500. Poi si inoltrava nelle differenze tra le attrici americane e delle francesi - le prime esplicite, le seconde conturbanti -, passeggiando nel suo giardino attorno al monumento al cane. Dono di Luchino Visconti.

«Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo» e qui gli uomini di casa Zeffirelli acceleravano il ritmo di pulitura dei suoi sette cani, «però, insomma, proprio comunista no. Ricordo quando giravamo La terra trema . Vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 1947 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell’acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che avrei poi usato per tutta la vita, Hammam bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno dopo. Poi il “comunista” Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo».

Franco Zeffirelli amava ricevere nell’archivio della sua villa sull’Appia. Marmi, mosaici, colonne facevano pensare alla villa di Capri dove Axel Munthe visse i suoi amori davanti al panorama caro a Tiberio, però Zeffirelli si schermiva: «Macché. Lei dovrebbe vedere piuttosto la mia casa di Positano», già appartenuta a Nureyev e poi venduta a Berlusconi. Negli scatoloni custodiva i segni di una vita senza confronti per varietà di orizzonti artistici e mondiali. Le locandine con le attrici americane e francesi che aveva diretto, da Brooke Shields a Fanny Ardant. Le casse con la scritta: Gesù , Hamlet , Stuarda , Capinera , Callas forever , e anche Inferno («volevo girare la Divina Commedia nelle grotte del Timavo») e Progetto Gerusalemme («l’idea era ricostruire il primo tempio, gli israeliani erano entusiasti, sarebbe stata una grande attrattiva turistica. Poi è scoppiata la guerra»). Altro progetto, San Francesco alle Crociate , a mettere pace tra la cristianità e l’Islam. Da Visconti, però, si doveva partire. Era stato il suo maestro, e il suo amore.

«Non dico abbia sparso il sale per convenienza — diceva Zeffirelli —. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba. La responsabilità è pure di Coco Chanel. Visconti era partito per Parigi con i suoi cavalli. Il campione non conquistò Longchamps, ma il padrone, bellissimo, affascinante, conquistò Parigi. Coco Chanel se ne invaghì, visse con lui una storia molto accesa, e gli parlava di continuo di Léon Blum e del Front Populaire. Importante fu anche l’influenza di Jean Renoir, comunistissimo, che volle Visconti come assistente e lo introdusse al cinema, lui che era cresciuto nel palazzo di famiglia con teatro di corte. Altri invece hanno obbedito al Minculpop comunista per opportunismo. Prenda Picasso: miliardario mascalzone, avido, senza nessun riguardo per gli umili, ha accumulato una fortuna senza mai fare beneficenza in vita sua…».

Era colpa dell’egemonia della sinistra sulla cultura — sosteneva — se la sua autobiografia tradotta in dodici lingue non trovava un editore in Italia, se il suo Giovane Toscanini era stato fischiato a Venezia: «Non sarà stato uno dei miei film migliori, però al Festival non attesero neppure di vederlo, cominciarono a rumoreggiare appena sullo schermo apparve il mio nome. Continuarono per tutto il tempo. Alle 3 di notte, mentre ero solo in camera, distrutto dalla rabbia, davanti a una bottiglia di whisky, ricevetti una telefonata. Una voce amica che mi diceva: “Mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo salvarli da loro stessi, perché non sanno quello che fanno”». Era Silvio Berlusconi.

Solo una volta Zeffirelli ebbe un coro di consensi. Fu quando girò Un tè con Mussolini : la storia della sua infanzia e della sua formazione, a cominciare dal nome. Zeffirelli non esiste. Se l’era inventato sua madre, Alaide Cipriani. Franco si definiva «un figlio dell’amore». Il padre si chiamava Corsi ed era sposato con un’altra donna, quando lo riconobbe era già grande. La madre aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. «La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze — raccontava Zeffirelli —. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni. Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary ’O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, che in Un tè con Mussolini è impersonata da Cher, la quale saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare. E c’era la moglie dell’ex ambasciatore britannico a Roma, sino all’ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l’Italia dai rossi. Ero molto legato a un professore di diritto romano che viveva nel convento di San Marco: Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso. La Pira non era un pacifista. Fu lui a dirmi di salire sull’Appennino per combattere nazisti e fascisti, ad ammonirmi che bisogna essere pronti a impugnare la spada per difendere Cristo da chi lo nega».

Zeffirelli in effetti è stato un partigiano. Liberale. Che rischiò di essere ammazzato da altri partigiani. Comunisti. «Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano. Un giorno pretesero di disarmarci. Ci salvò un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com’erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia».

Il maestro non riteneva chiusa la ferita della guerra civile e finita la Guerra Fredda. «Siamo ancora lì. Non sono cambiati. Hanno distrutto il partito socialista. Impediscono all’Italia di diventare una democrazia normale. Alimentano l’oscenità e la stupidità dei centri sociali, finti ribelli figli di veri ricchi; la penso come Pasolini, un altro che aveva sparso il sale ma fu sempre molto carino con me, grande amico e grande scrittore, anche se non grande regista». Benigni? «Me lo ricordo trent’anni fa: faceva i numeri ai tavoli dei ristoranti romani, almeno quelli gli venivano bene. Non ricordo invece un suo film riuscito, tranne forse Johnny Stecchino . Di Moretti non saprei dire, nessuno dei suoi film mi è passato oltre le cornee».

Il suo sogno era fare un film — ovviamente costosissimo — sulla rivalità tra Leonardo e Michelangelo. Poteva passare ore a dissertare sui due Rinascimenti fiorentini: l’esplosione quattrocentesca di Brunelleschi, Donatello, Masaccio; il mistero della stasi medicea; e poi la grande stagione dei primi anni del ’500. Poi si inoltrava nelle differenze tra le attrici americane e delle francesi — le prime esplicite, le seconde conturbanti —, passeggiando nel suo giardino attorno al monumento al cane. Dono di Luchino Visconti.

Franco Zeffirelli era un uomo bello, meritatamente ricco, di successo internazionale, ma abitato da un’ossessione: non si sentiva amato ed elogiato dalla critica come era convinto di meritare.

La sua colpa, diceva, era aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell’imperatore. «Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo» e qui gli uomini di casa Zeffirelli acceleravano il ritmo di pulitura dei suoi sette cani, «però, insomma, proprio comunista no. Ricordo quando giravamo “La terra trema”. Vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 1947 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell’acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che avrei poi usato per tutta la vita, Hammam bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno dopo. Poi il “comunista” Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo».

Franco Zeffirelli amava ricevere nell’archivio della sua villa sull’Appia. Marmi, mosaici, colonne facevano pensare alla villa di Capri dove Axel Munthe visse i suoi amori davanti al panorama caro a Tiberio, però Zeffirelli si schermiva: «Macché. Lei dovrebbe vedere piuttosto la mia casa di Positano», già appartenuta a Nureiev e poi venduta a Berlusconi. Negli scatoloni custodiva i segni di una vita senza confronti per varietà di orizzonti artistici e mondiali. Le locandine con le attrici americane e francesi che aveva diretto, da Brooke Shields a Fanny Ardant. Le casse con la scritta: Gesù, Hamlet, Stuarda, Capinera, Callas forever, e anche Inferno («volevo girare la Divina Commedia nelle grotte del Timavo») e Progetto Gerusalemme («l’idea era ricostruire il primo tempio, gli israeliani erano entusiasti, sarebbe stata una grande attrattiva turistica. Poi è scoppiata la guerra»). Altro progetto, San Francesco alle Crociate, a mettere pace tra la cristianità e l’Islam. Da Visconti, però, si doveva partire. Era stato il suo maestro, e il suo amore.

«Non dico abbia sparso il sale per convenienza – diceva Zeffirelli -. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba. La responsabilità è pure di Coco Chanel. Visconti era partito per Parigi con i suoi cavalli. Il campione non conquistò Longchamps, ma il padrone, bellissimo, affascinante, conquistò Parigi. Coco Chanel se ne invaghì, visse con lui una storia molto accesa, e gli parlava di continuo di Léon Blum e del Front Populaire. Importante fu anche l’influenza di Jean Renoir, comunistissimo, che volle Visconti come assistente e lo introdusse al cinema, lui che era cresciuto nel palazzo di famiglia con teatro di corte. Altri invece hanno obbedito al Minculpop comunista per opportunismo. Prenda Picasso: miliardario mascalzone, avido, senza nessun riguardo per gli umili, ha accumulato una fortuna senza mai fare beneficenza in vita sua…».

Era colpa dell’egemonia della sinistra sulla cultura – sosteneva — se la sua autobiografia tradotta in dodici lingue non trovava un editore in Italia, se il suo Giovane Toscanini era stato fischiato a Venezia: «Non sarà stato uno dei miei film migliori, però al Festival non attesero neppure di vederlo, cominciarono a rumoreggiare appena sullo schermo apparve il mio nome. Continuarono per tutto il tempo. Alle 3 di notte, mentre ero solo in camera, distrutto dalla rabbia, davanti a una bottiglia di whisky, ricevetti una telefonata. Una voce amica che mi diceva: “Mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo salvarli da loro stessi, perché non sanno quello che fanno”». Era Silvio Berlusconi.

Solo una volta Zeffirelli ebbe un coro di consensi. Fu quando girò «Un tè con Mussolini»: la storia della sua infanzia e della sua formazione, a cominciare dal nome. Zeffirelli non esiste. Se l’era inventato sua madre, Alaide Cipriani. Franco si definiva «un figlio dell’amore». Il padre si chiamava Cursi ed era sposato con un’altra donna, quando lo riconobbe era già grande. La madre aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. «La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze — raccontava Zeffirelli —. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni. Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary ’O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, che in “Un tè con Mussolini” è impersonata da Cher, la quale saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare. E c’era la moglie dell’ex ambasciatore britannico a Roma, sino all’ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l’Italia dai rossi. Ero molto legato a un professore di diritto romano che viveva nel convento di San Marco: Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso. La Pira non era un pacifista. Fu lui a dirmi di salire sull’Appennino per combattere nazisti e fascisti, ad ammonirmi che bisogna essere pronti a impugnare la spada per difendere Cristo da chi lo nega».

Zeffirelli in effetti è stato un partigiano. Liberale. Che rischiò di essere ammazzato da altri partigiani. Comunisti. «Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano. Un giorno pretesero di disarmarci. Ci salvò un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com’erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia».

Il maestro non riteneva chiusa la ferita della guerra civile e finita la guerra fredda. «Siamo ancora lì. Non sono cambiati. Hanno distrutto il partito socialista. Impediscono all’Italia di diventare una democrazia normale. Alimentano l’oscenità e la stupidità dei centri sociali, finti ribelli figli di veri ricchi; la penso come Pasolini, un altro che aveva sparso il sale ma fu sempre molto carino con me, grande amico e grande scrittore, anche se non grande regista». Benigni? «Me lo ricordo trent’anni fa: faceva i numeri ai tavoli dei ristoranti romani, almeno quelli gli venivano bene. Non ricordo invece un suo film riuscito, tranne forse “Johnny Stecchino”. Di Moretti non saprei dire, nessuno dei suoi film mi è passato oltre le cornee».

Il suo sogno era fare un film – ovviamente costosissimo - sulla rivalità tra Leonardo e Michelangelo. Poteva passare ore a dissertare sui due Rinascimenti fiorentini: l’esplosione quattrocentesca di Brunelleschi, Donatello, Masaccio; il mistero della stasi medicea; e poi la grande stagione dei primi anni del ’500. Poi si inoltrava nelle differenze tra le attrici americane e delle francesi - le prime esplicite, le seconde conturbanti -, passeggiando nel suo giardino attorno al monumento al cane. Dono di Luchino Visconti.

Valerio Cappelli sul Corriere della Sera

«Era il 1969 quando ho conosciuto Franco». Franco Zeffirelli raccontato da Pippo Zeffirelli. Dal 2000, lui e Luciano sono i suoi figli adottivi. Nasce da un rappresentante di Agrigento, Pippo, 68 anni. È la persona che è stata più vicina al grande regista, è vicepresidente della neonata Fondazione che a Firenze ha raccolto l’eredità artistica del maestro. «Sono appassionato di cinema, avevo conosciuto Mauro Bolognini, fu lui a presentarmi Franco di cui diventai prima assistente e poi aiuto regista. Tante opere, da Vienna a New York, poi la preparazione del Gesù di Nazareth . Cominciavano gli anni più belli della sua attività».

Ma com’era la vita nella villa sull’Appia Antica dove si era stabilito?

«C’era una sala di proiezione in cui si vedevano i film candidati agli Oscar, Franco era uno dei votanti. Ricordo Visconti, Rosi, Nora Ricci, la Borboni, la Wertmüller, Monica Vitti… Alcuni si volevano bene tra loro, altri si odiavano. Anna Magnani veniva spesso ma voleva essere da sola con Franco per poter parlare a tu per tu. Una sera arrivò Maria Callas, non si era ricordato che era stata invitata anche Magnani, non sapeva come affrontare la cosa. Maria corse da Anna: “Sei la mia attrice preferita!”. Divennero amiche».

L’età dell’oro fu inglese.

«Non riusciva a lavorare a teatro in Italia. Si trasferì a Londra dove allestì Romeo e Giulietta e Molto rumore per nulla , alla cui prima vennero Liz Taylor e Richard Burton: espressero il desiderio di fare un film con lui. Da lì La bisbetica domata e il suo lancio internazionale nel cinema».

Zeffirelli in due parole: generoso e capriccioso?

«E ribelle, come tanti fiorentini. Non è mai stato puntuale. Il giorno in cui tardò, sul set de Il giovane Toscanini , proprio Taylor gli disse: questa la pagherai per il resto delle riprese. Così fu, ogni giorno eravamo tutti ad attenderla per tre-quattro ore».

Le estati a Positano?

«Quella irripetibile fu con due grandi direttori, Kleiber e Bernstein, il primo nel suo mondo interiore viveva di giorno e l’altro estroverso viveva di notte. Venivano Liza Minnelli, Laurence Olivier. Poi le Kessler e Carla Fracci, che è di sinistra, idee opposte a Franco, ma non ci fu mai alcun impedimento tra loro. Quando fu chiesto a Franco di organizzare un festival a Positano, lui chiamò Nureyev, il quale una volta decise di farsi un bagno nel mare in piena notte. Il cancello fu chiuso pensando che tutti gli ospiti fossero rientrati. Nureyev rimase fuori. Era furioso, cominciò a rompere vasi preziosi, volarono schiaffi».

Come diventaste, lei e Luciano, figli adottivi?

«Nel 2000, quando Franco cominciò a stare male. Ce l’aveva chiesto anche vent’anni prima, ma avevo papà in vita: dissi sì alla sua morte. Luciano era orfano, all’inizio fu assunto come autista e guardia del corpo, poi si occupò della casa e del giardino».

Come sono stati questi ultimi tempi per lui?

«Come quelli di qualcuno che ha la testa piena di idee, ma non è più sostenuto dal fisico. Entravamo e uscivamo dalla clinica. I guai cominciarono per l’anca. Andò a operarsi a Los Angeles. Aveva bisogno di un nuovo femore, all’epoca non esisteva il titanio, fu messa una protesi, che si consuma. Tornò negli Usa per rifare l’operazione, ma per Un tè con Mussolini Cher e Maggie Smith erano libere solo in quel momento. Cominciò a girare, la situazione dell’anca peggiorò. Siamo nel febbraio 2000. Il giorno prima dell’intervento, il chirurgo rimase vedovo. L’assistente trovò che la protesi non andava più bene. Fu aperto, richiuso. Questo causò l’inizio di un’infezione che lo portò a essere rioperato a Roma. Sei mesi di pesanti antibiotici gli bruciarono i labirinti. Da allora tante altre operazioni, anche al cuore, tra Roma e Londra».

Vi parlava del suo drammatico passato familiare?

«La madre era sposata con un uomo rimasto paralizzato. Lei, una sarta bella e giovane, accettò la corte di Ottorino Corsi, fornitore di tessuti. La mise incinta. Lui aveva una sua famiglia. A Firenze fu uno scandalo. La madre morì che Franco aveva sei anni. Fu cresciuto dalla cugina del padre. Sua moglie andava all’uscita della scuola e gridava bastardo a Franco. Quando lei morì, Corsi riconobbe Franco. Per i figli illegittimi si seguiva l’alfabeto, a lui toccò la z. Alla madre piaceva l’aria degli zeffiretti dall’ Idomeneo di Mozart . Solo che l’impiegato dell’anagrafe sbagliò e scrisse Zeffirelli. Franco è stato sempre molto pudico. Era cattolico, credente. La sua dichiarazione di omosessualità l’ha fatta di recente. Voleva la famiglia che non aveva mai avuto».

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«Era un ribelle come tanti fiorentini. litigò anche con Liz Taylor e Rudolf Nureyev. E non è mai stato puntuale». Pippo Zeffirelli, 68 anni, racconta il padre adottivo.

Franco Zeffirelli era un uomo bello, meritatamente ricco, di successo internazionale, ma abitato da un’ossessione: non si sentiva amato ed elogiato dalla critica come era convinto di meritare.

La sua colpa, diceva, era aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell’imperatore. «Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo» e qui gli uomini di casa Zeffirelli acceleravano il ritmo di pulitura dei suoi sette cani, «però, insomma, proprio comunista no. Ricordo quando giravamo “La terra trema”. Vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 1947 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell’acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che avrei poi usato per tutta la vita, Hammam bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno dopo. Poi il “comunista” Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo».

Franco Zeffirelli amava ricevere nell’archivio della sua villa sull’Appia. Marmi, mosaici, colonne facevano pensare alla villa di Capri dove Axel Munthe visse i suoi amori davanti al panorama caro a Tiberio, però Zeffirelli si schermiva: «Macché. Lei dovrebbe vedere piuttosto la mia casa di Positano», già appartenuta a Nureiev e poi venduta a Berlusconi. Negli scatoloni custodiva i segni di una vita senza confronti per varietà di orizzonti artistici e mondiali. Le locandine con le attrici americane e francesi che aveva diretto, da Brooke Shields a Fanny Ardant. Le casse con la scritta: Gesù, Hamlet, Stuarda, Capinera, Callas forever, e anche Inferno («volevo girare la Divina Commedia nelle grotte del Timavo») e Progetto Gerusalemme («l’idea era ricostruire il primo tempio, gli israeliani erano entusiasti, sarebbe stata una grande attrattiva turistica. Poi è scoppiata la guerra»). Altro progetto, San Francesco alle Crociate, a mettere pace tra la cristianità e l’Islam. Da Visconti, però, si doveva partire. Era stato il suo maestro, e il suo amore.

«Non dico abbia sparso il sale per convenienza – diceva Zeffirelli -. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba. La responsabilità è pure di Coco Chanel. Visconti era partito per Parigi con i suoi cavalli. Il campione non conquistò Longchamps, ma il padrone, bellissimo, affascinante, conquistò Parigi. Coco Chanel se ne invaghì, visse con lui una storia molto accesa, e gli parlava di continuo di Léon Blum e del Front Populaire. Importante fu anche l’influenza di Jean Renoir, comunistissimo, che volle Visconti come assistente e lo introdusse al cinema, lui che era cresciuto nel palazzo di famiglia con teatro di corte. Altri invece hanno obbedito al Minculpop comunista per opportunismo. Prenda Picasso: miliardario mascalzone, avido, senza nessun riguardo per gli umili, ha accumulato una fortuna senza mai fare beneficenza in vita sua…».

Era colpa dell’egemonia della sinistra sulla cultura – sosteneva — se la sua autobiografia tradotta in dodici lingue non trovava un editore in Italia, se il suo Giovane Toscanini era stato fischiato a Venezia: «Non sarà stato uno dei miei film migliori, però al Festival non attesero neppure di vederlo, cominciarono a rumoreggiare appena sullo schermo apparve il mio nome. Continuarono per tutto il tempo. Alle 3 di notte, mentre ero solo in camera, distrutto dalla rabbia, davanti a una bottiglia di whisky, ricevetti una telefonata. Una voce amica che mi diceva: “Mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo salvarli da loro stessi, perché non sanno quello che fanno”». Era Silvio Berlusconi.

Solo una volta Zeffirelli ebbe un coro di consensi. Fu quando girò «Un tè con Mussolini»: la storia della sua infanzia e della sua formazione, a cominciare dal nome. Zeffirelli non esiste. Se l’era inventato sua madre, Alaide Cipriani. Franco si definiva «un figlio dell’amore». Il padre si chiamava Cursi ed era sposato con un’altra donna, quando lo riconobbe era già grande. La madre aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. «La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze — raccontava Zeffirelli —. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni. Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary ’O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, che in “Un tè con Mussolini” è impersonata da Cher, la quale saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare. E c’era la moglie dell’ex ambasciatore britannico a Roma, sino all’ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l’Italia dai rossi. Ero molto legato a un professore di diritto romano che viveva nel convento di San Marco: Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso. La Pira non era un pacifista. Fu lui a dirmi di salire sull’Appennino per combattere nazisti e fascisti, ad ammonirmi che bisogna essere pronti a impugnare la spada per difendere Cristo da chi lo nega».

Zeffirelli in effetti è stato un partigiano. Liberale. Che rischiò di essere ammazzato da altri partigiani. Comunisti. «Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano. Un giorno pretesero di disarmarci. Ci salvò un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com’erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia».

Il maestro non riteneva chiusa la ferita della guerra civile e finita la guerra fredda. «Siamo ancora lì. Non sono cambiati. Hanno distrutto il partito socialista. Impediscono all’Italia di diventare una democrazia normale. Alimentano l’oscenità e la stupidità dei centri sociali, finti ribelli figli di veri ricchi; la penso come Pasolini, un altro che aveva sparso il sale ma fu sempre molto carino con me, grande amico e grande scrittore, anche se non grande regista». Benigni? «Me lo ricordo trent’anni fa: faceva i numeri ai tavoli dei ristoranti romani, almeno quelli gli venivano bene. Non ricordo invece un suo film riuscito, tranne forse “Johnny Stecchino”. Di Moretti non saprei dire, nessuno dei suoi film mi è passato oltre le cornee».

Il suo sogno era fare un film – ovviamente costosissimo - sulla rivalità tra Leonardo e Michelangelo. Poteva passare ore a dissertare sui due Rinascimenti fiorentini: l’esplosione quattrocentesca di Brunelleschi, Donatello, Masaccio; il mistero della stasi medicea; e poi la grande stagione dei primi anni del ’500. Poi si inoltrava nelle differenze tra le attrici americane e delle francesi - le prime esplicite, le seconde conturbanti -, passeggiando nel suo giardino attorno al monumento al cane. Dono di Luchino Visconti.

«Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo» e qui gli uomini di casa Zeffirelli acceleravano il ritmo di pulitura dei suoi sette cani, «però, insomma, proprio comunista no. Ricordo quando giravamo La terra trema . Vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 1947 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell’acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che avrei poi usato per tutta la vita, Hammam bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno dopo. Poi il “comunista” Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo».

Franco Zeffirelli amava ricevere nell’archivio della sua villa sull’Appia. Marmi, mosaici, colonne facevano pensare alla villa di Capri dove Axel Munthe visse i suoi amori davanti al panorama caro a Tiberio, però Zeffirelli si schermiva: «Macché. Lei dovrebbe vedere piuttosto la mia casa di Positano», già appartenuta a Nureyev e poi venduta a Berlusconi. Negli scatoloni custodiva i segni di una vita senza confronti per varietà di orizzonti artistici e mondiali. Le locandine con le attrici americane e francesi che aveva diretto, da Brooke Shields a Fanny Ardant. Le casse con la scritta: Gesù , Hamlet , Stuarda , Capinera , Callas forever , e anche Inferno («volevo girare la Divina Commedia nelle grotte del Timavo») e Progetto Gerusalemme («l’idea era ricostruire il primo tempio, gli israeliani erano entusiasti, sarebbe stata una grande attrattiva turistica. Poi è scoppiata la guerra»). Altro progetto, San Francesco alle Crociate , a mettere pace tra la cristianità e l’Islam. Da Visconti, però, si doveva partire. Era stato il suo maestro, e il suo amore.

«Non dico abbia sparso il sale per convenienza — diceva Zeffirelli —. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba. La responsabilità è pure di Coco Chanel. Visconti era partito per Parigi con i suoi cavalli. Il campione non conquistò Longchamps, ma il padrone, bellissimo, affascinante, conquistò Parigi. Coco Chanel se ne invaghì, visse con lui una storia molto accesa, e gli parlava di continuo di Léon Blum e del Front Populaire. Importante fu anche l’influenza di Jean Renoir, comunistissimo, che volle Visconti come assistente e lo introdusse al cinema, lui che era cresciuto nel palazzo di famiglia con teatro di corte. Altri invece hanno obbedito al Minculpop comunista per opportunismo. Prenda Picasso: miliardario mascalzone, avido, senza nessun riguardo per gli umili, ha accumulato una fortuna senza mai fare beneficenza in vita sua…».

Era colpa dell’egemonia della sinistra sulla cultura — sosteneva — se la sua autobiografia tradotta in dodici lingue non trovava un editore in Italia, se il suo Giovane Toscanini era stato fischiato a Venezia: «Non sarà stato uno dei miei film migliori, però al Festival non attesero neppure di vederlo, cominciarono a rumoreggiare appena sullo schermo apparve il mio nome. Continuarono per tutto il tempo. Alle 3 di notte, mentre ero solo in camera, distrutto dalla rabbia, davanti a una bottiglia di whisky, ricevetti una telefonata. Una voce amica che mi diceva: “Mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo salvarli da loro stessi, perché non sanno quello che fanno”». Era Silvio Berlusconi.

Solo una volta Zeffirelli ebbe un coro di consensi. Fu quando girò Un tè con Mussolini : la storia della sua infanzia e della sua formazione, a cominciare dal nome. Zeffirelli non esiste. Se l’era inventato sua madre, Alaide Cipriani. Franco si definiva «un figlio dell’amore». Il padre si chiamava Corsi ed era sposato con un’altra donna, quando lo riconobbe era già grande. La madre aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. «La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze — raccontava Zeffirelli —. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni. Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary ’O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, che in Un tè con Mussolini è impersonata da Cher, la quale saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare. E c’era la moglie dell’ex ambasciatore britannico a Roma, sino all’ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l’Italia dai rossi. Ero molto legato a un professore di diritto romano che viveva nel convento di San Marco: Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso. La Pira non era un pacifista. Fu lui a dirmi di salire sull’Appennino per combattere nazisti e fascisti, ad ammonirmi che bisogna essere pronti a impugnare la spada per difendere Cristo da chi lo nega».

Zeffirelli in effetti è stato un partigiano. Liberale. Che rischiò di essere ammazzato da altri partigiani. Comunisti. «Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano. Un giorno pretesero di disarmarci. Ci salvò un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com’erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia».

Il maestro non riteneva chiusa la ferita della guerra civile e finita la Guerra Fredda. «Siamo ancora lì. Non sono cambiati. Hanno distrutto il partito socialista. Impediscono all’Italia di diventare una democrazia normale. Alimentano l’oscenità e la stupidità dei centri sociali, finti ribelli figli di veri ricchi; la penso come Pasolini, un altro che aveva sparso il sale ma fu sempre molto carino con me, grande amico e grande scrittore, anche se non grande regista». Benigni? «Me lo ricordo trent’anni fa: faceva i numeri ai tavoli dei ristoranti romani, almeno quelli gli venivano bene. Non ricordo invece un suo film riuscito, tranne forse Johnny Stecchino . Di Moretti non saprei dire, nessuno dei suoi film mi è passato oltre le cornee».

Il suo sogno era fare un film — ovviamente costosissimo — sulla rivalità tra Leonardo e Michelangelo. Poteva passare ore a dissertare sui due Rinascimenti fiorentini: l’esplosione quattrocentesca di Brunelleschi, Donatello, Masaccio; il mistero della stasi medicea; e poi la grande stagione dei primi anni del ’500. Poi si inoltrava nelle differenze tra le attrici americane e delle francesi — le prime esplicite, le seconde conturbanti —, passeggiando nel suo giardino attorno al monumento al cane. Dono di Luchino Visconti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Franco Zeffirelli era un uomo bello, meritatamente ricco, di successo internazionale, ma abitato da un’ossessione: non si sentiva amato ed elogiato dalla critica come era convinto di meritare.

La sua colpa, diceva, era aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell’imperatore. «Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo» e qui gli uomini di casa Zeffirelli acceleravano il ritmo di pulitura dei suoi sette cani, «però, insomma, proprio comunista no. Ricordo quando giravamo “La terra trema”. Vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 1947 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell’acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che avrei poi usato per tutta la vita, Hammam bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno dopo. Poi il “comunista” Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo».

Franco Zeffirelli amava ricevere nell’archivio della sua villa sull’Appia. Marmi, mosaici, colonne facevano pensare alla villa di Capri dove Axel Munthe visse i suoi amori davanti al panorama caro a Tiberio, però Zeffirelli si schermiva: «Macché. Lei dovrebbe vedere piuttosto la mia casa di Positano», già appartenuta a Nureiev e poi venduta a Berlusconi. Negli scatoloni custodiva i segni di una vita senza confronti per varietà di orizzonti artistici e mondiali. Le locandine con le attrici americane e francesi che aveva diretto, da Brooke Shields a Fanny Ardant. Le casse con la scritta: Gesù, Hamlet, Stuarda, Capinera, Callas forever, e anche Inferno («volevo girare la Divina Commedia nelle grotte del Timavo») e Progetto Gerusalemme («l’idea era ricostruire il primo tempio, gli israeliani erano entusiasti, sarebbe stata una grande attrattiva turistica. Poi è scoppiata la guerra»). Altro progetto, San Francesco alle Crociate, a mettere pace tra la cristianità e l’Islam. Da Visconti, però, si doveva partire. Era stato il suo maestro, e il suo amore.

«Non dico abbia sparso il sale per convenienza – diceva Zeffirelli -. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba. La responsabilità è pure di Coco Chanel. Visconti era partito per Parigi con i suoi cavalli. Il campione non conquistò Longchamps, ma il padrone, bellissimo, affascinante, conquistò Parigi. Coco Chanel se ne invaghì, visse con lui una storia molto accesa, e gli parlava di continuo di Léon Blum e del Front Populaire. Importante fu anche l’influenza di Jean Renoir, comunistissimo, che volle Visconti come assistente e lo introdusse al cinema, lui che era cresciuto nel palazzo di famiglia con teatro di corte. Altri invece hanno obbedito al Minculpop comunista per opportunismo. Prenda Picasso: miliardario mascalzone, avido, senza nessun riguardo per gli umili, ha accumulato una fortuna senza mai fare beneficenza in vita sua…».

Era colpa dell’egemonia della sinistra sulla cultura – sosteneva — se la sua autobiografia tradotta in dodici lingue non trovava un editore in Italia, se il suo Giovane Toscanini era stato fischiato a Venezia: «Non sarà stato uno dei miei film migliori, però al Festival non attesero neppure di vederlo, cominciarono a rumoreggiare appena sullo schermo apparve il mio nome. Continuarono per tutto il tempo. Alle 3 di notte, mentre ero solo in camera, distrutto dalla rabbia, davanti a una bottiglia di whisky, ricevetti una telefonata. Una voce amica che mi diceva: “Mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo salvarli da loro stessi, perché non sanno quello che fanno”». Era Silvio Berlusconi.

Solo una volta Zeffirelli ebbe un coro di consensi. Fu quando girò «Un tè con Mussolini»: la storia della sua infanzia e della sua formazione, a cominciare dal nome. Zeffirelli non esiste. Se l’era inventato sua madre, Alaide Cipriani. Franco si definiva «un figlio dell’amore». Il padre si chiamava Cursi ed era sposato con un’altra donna, quando lo riconobbe era già grande. La madre aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. «La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze — raccontava Zeffirelli —. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni. Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary ’O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, che in “Un tè con Mussolini” è impersonata da Cher, la quale saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare. E c’era la moglie dell’ex ambasciatore britannico a Roma, sino all’ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l’Italia dai rossi. Ero molto legato a un professore di diritto romano che viveva nel convento di San Marco: Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso. La Pira non era un pacifista. Fu lui a dirmi di salire sull’Appennino per combattere nazisti e fascisti, ad ammonirmi che bisogna essere pronti a impugnare la spada per difendere Cristo da chi lo nega».

Zeffirelli in effetti è stato un partigiano. Liberale. Che rischiò di essere ammazzato da altri partigiani. Comunisti. «Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano. Un giorno pretesero di disarmarci. Ci salvò un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com’erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia».

Il maestro non riteneva chiusa la ferita della guerra civile e finita la guerra fredda. «Siamo ancora lì. Non sono cambiati. Hanno distrutto il partito socialista. Impediscono all’Italia di diventare una democrazia normale. Alimentano l’oscenità e la stupidità dei centri sociali, finti ribelli figli di veri ricchi; la penso come Pasolini, un altro che aveva sparso il sale ma fu sempre molto carino con me, grande amico e grande scrittore, anche se non grande regista». Benigni? «Me lo ricordo trent’anni fa: faceva i numeri ai tavoli dei ristoranti romani, almeno quelli gli venivano bene. Non ricordo invece un suo film riuscito, tranne forse “Johnny Stecchino”. Di Moretti non saprei dire, nessuno dei suoi film mi è passato oltre le cornee».

Il suo sogno era fare un film – ovviamente costosissimo - sulla rivalità tra Leonardo e Michelangelo. Poteva passare ore a dissertare sui due Rinascimenti fiorentini: l’esplosione quattrocentesca di Brunelleschi, Donatello, Masaccio; il mistero della stasi medicea; e poi la grande stagione dei primi anni del ’500. Poi si inoltrava nelle differenze tra le attrici americane e delle francesi - le prime esplicite, le seconde conturbanti -, passeggiando nel suo giardino attorno al monumento al cane. Dono di Luchino Visconti.

«Era il 1969 quando ho conosciuto Franco». Franco Zeffirelli raccontato da Pippo Zeffirelli. Dal 2000, lui e Luciano sono i suoi figli adottivi. Nasce da un rappresentante di Agrigento, Pippo, 68 anni. È la persona che è stata più vicina al grande regista, è vicepresidente della neonata Fondazione che a Firenze ha raccolto l’eredità artistica del maestro. «Sono appassionato di cinema, avevo conosciuto Mauro Bolognini, fu lui a presentarmi Franco di cui diventai prima assistente e poi aiuto regista. Tante opere, da Vienna a New York, poi la preparazione del Gesù di Nazareth . Cominciavano gli anni più belli della sua attività».

Ma com’era la vita nella villa sull’Appia Antica dove si era stabilito?

«C’era una sala di proiezione in cui si vedevano i film candidati agli Oscar, Franco era uno dei votanti. Ricordo Visconti, Rosi, Nora Ricci, la Borboni, la Wertmüller, Monica Vitti… Alcuni si volevano bene tra loro, altri si odiavano. Anna Magnani veniva spesso ma voleva essere da sola con Franco per poter parlare a tu per tu. Una sera arrivò Maria Callas, non si era ricordato che era stata invitata anche Magnani, non sapeva come affrontare la cosa. Maria corse da Anna: “Sei la mia attrice preferita!”. Divennero amiche».

L’età dell’oro fu inglese.

«Non riusciva a lavorare a teatro in Italia. Si trasferì a Londra dove allestì Romeo e Giulietta e Molto rumore per nulla , alla cui prima vennero Liz Taylor e Richard Burton: espressero il desiderio di fare un film con lui. Da lì La bisbetica domata e il suo lancio internazionale nel cinema».

Zeffirelli in due parole: generoso e capriccioso?

«E ribelle, come tanti fiorentini. Non è mai stato puntuale. Il giorno in cui tardò, sul set de Il giovane Toscanini , proprio Taylor gli disse: questa la pagherai per il resto delle riprese. Così fu, ogni giorno eravamo tutti ad attenderla per tre-quattro ore».

Le estati a Positano?

«Quella irripetibile fu con due grandi direttori, Kleiber e Bernstein, il primo nel suo mondo interiore viveva di giorno e l’altro estroverso viveva di notte. Venivano Liza Minnelli, Laurence Olivier. Poi le Kessler e Carla Fracci, che è di sinistra, idee opposte a Franco, ma non ci fu mai alcun impedimento tra loro. Quando fu chiesto a Franco di organizzare un festival a Positano, lui chiamò Nureyev, il quale una volta decise di farsi un bagno nel mare in piena notte. Il cancello fu chiuso pensando che tutti gli ospiti fossero rientrati. Nureyev rimase fuori. Era furioso, cominciò a rompere vasi preziosi, volarono schiaffi».

Come diventaste, lei e Luciano, figli adottivi?

«Nel 2000, quando Franco cominciò a stare male. Ce l’aveva chiesto anche vent’anni prima, ma avevo papà in vita: dissi sì alla sua morte. Luciano era orfano, all’inizio fu assunto come autista e guardia del corpo, poi si occupò della casa e del giardino».

Come sono stati questi ultimi tempi per lui?

«Come quelli di qualcuno che ha la testa piena di idee, ma non è più sostenuto dal fisico. Entravamo e uscivamo dalla clinica. I guai cominciarono per l’anca. Andò a operarsi a Los Angeles. Aveva bisogno di un nuovo femore, all’epoca non esisteva il titanio, fu messa una protesi, che si consuma. Tornò negli Usa per rifare l’operazione, ma per Un tè con Mussolini Cher e Maggie Smith erano libere solo in quel momento. Cominciò a girare, la situazione dell’anca peggiorò. Siamo nel febbraio 2000. Il giorno prima dell’intervento, il chirurgo rimase vedovo. L’assistente trovò che la protesi non andava più bene. Fu aperto, richiuso. Questo causò l’inizio di un’infezione che lo portò a essere rioperato a Roma. Sei mesi di pesanti antibiotici gli bruciarono i labirinti. Da allora tante altre operazioni, anche al cuore, tra Roma e Londra».

Vi parlava del suo drammatico passato familiare?

«La madre era sposata con un uomo rimasto paralizzato. Lei, una sarta bella e giovane, accettò la corte di Ottorino Corsi, fornitore di tessuti. La mise incinta. Lui aveva una sua famiglia. A Firenze fu uno scandalo. La madre morì che Franco aveva sei anni. Fu cresciuto dalla cugina del padre. Sua moglie andava all’uscita della scuola e gridava bastardo a Franco. Quando lei morì, Corsi riconobbe Franco. Per i figli illegittimi si seguiva l’alfabeto, a lui toccò la z. Alla madre piaceva l’aria degli zeffiretti dall’ Idomeneo di Mozart . Solo che l’impiegato dell’anagrafe sbagliò e scrisse Zeffirelli. Franco è stato sempre molto pudico. Era cattolico, credente. La sua dichiarazione di omosessualità l’ha fatta di recente. Voleva la famiglia che non aveva mai avuto».

Maurizio Porro sul Corriere della Sera

A ricordarlo per sempre, nella sua amata Firenze c’è l’imponente fondazione intestata al suo nome e alla sua opera che occupa stanze zeppe di prodigi, incanti, scenografie fra cui brillano quelle dell’Inferno di una progettata Commedia. Franco Zeffirelli si è spento ieri a Roma, era ammalato da tempo. Il «fiorentino» purosangue del ’23 che non riuscì mai a dirigere il film sulla sua città (con cui non mancarono polemiche) ma per la quale fece il possibile e l’impossibile durante l’alluvione del ’66, è stato nel mondo dello spettacolo uno dei pochi che l’hanno frequentato per intero, come il suo maestro Visconti con cui ebbe un rapporto, per così dire, bipolare. Sapeva cosa vuol dire far spettacolo e ammaliare il pubblico.

Radio e tv, costumi e scenografie, regista di cinema, d’opera (la Bohème scaligera), prosa. E ci fu pure un inizio da attore giovane e aitante nell’Onorevole Angelina con la Magnani. E non finisce qui: fu polemista su sponda sociale, morale e sessuale (tuonò contro la pornografia, visse un’omosessualità nota in privato, ma velata in pubblico), politico di centrodestra. Pur liberale e anticomunista lavorò con Antonioni, De Sica, Rossellini e nel ’49 col regista allora più schierato, Visconti. Fu assistente in La terra trema, Bellissima e Senso; poi scenografo di celebri spettacoli (Un tram che si chiama desiderio, Troilo e Cressida a Boboli), finché il sodalizio si ruppe, anche con pettegolezzi molesti: Luchino lo chiamò «il mio arredatore».

Zeffirelli, o Scespirelli come l’avevano soprannominato allegri nemici perché frequentava Londra e sir William (celebri allestimenti dell’Old Vic con Judy Dench Giulietta), non fu un uomo facile: «Seguo sempre e solo il mio istinto» diceva. Passò anni a tuonare contro la sinistra al potere e la velleità populista del nostro cinema. Si sentiva vittima, ma pochi come lui hanno lavorato senza sosta, arrivando a successi internazionali come il Gesù di Nazareth tv (’76), clamoroso esempio del suo manierismo figurativo e del suo contagioso impeto spirituale. Puntava sempre alto, gli piacevano le Grandi Storie, l’Amore sfogliato in ogni declinazione romantica, vedi Romeo e Giulietta con i giovanissimi e bravissimi Guarnieri e Giannini; ma purtroppo anche le derive del melodramma in alcuni film americani strappacore come Il campione con Jon Voight e Amore senza fine con Brooke Shields. Amante dei classici, confidente di coppie vip come Taylor e Burton, e amico delle primedonne internazionali, dalla Callas alla Sutherland, il giovane Zeffirelli visse un’adolescenza disagiata per mancanza di famiglia. Era figlio illegittimo di un uomo già sposato e con un’altra figlia e la madre morì quando aveva solo sei anni. Si innamorò subito dell’arte e prese parte alla lotta antifascista, come racconta nel suo film più sentito, Un tè con Mussolini. Al cinema ha allestito kolossal scespiriani belli e patinati, di gran clamore scenografico e sontuoso impatto visivo: la Bisbetica domata con Taylor e Burton, Romeo e Giulietta con Hussey e Whiting (nomination all’Oscar per la regia), accorgendosi con un’occhiata se qualcosa non andava, anche fosse il collare dei cani.

In teatro, pur amando Pirandello (Così è se vi pare per la vecchia Borboni, i Sei personaggi con Salerno) e Schiller (storica Stuarda con due regine in gara come la Falk e la sua amica Cortese), portò Eduardo in Inghilterra con Laurence Olivier (Sabato, domenica e lunedì) e la Plowright (Filomena Marturano). E aveva la vista lunga sugli americani: fu il primo a scoprire da noi Albee, allestendo Chi ha paura di Virginia Woolf? Col suo cinema, come fossero film opera, voleva affascinare e commuovere, vedi Fratello Sole Sorella Luna (’71) su San Francesco e anche Storia di una capinera, il non riuscito Giovane Toscanini e Jane Eyre. Un capitolo a parte merita Amleto, allestito magnificamente nel ’64 a teatro con un Albertazzi in nero esistenziale e ripreso nel ’90 al cinema con Mel Gibson in edizione gotico-country e la voce di Giannini. «Il teatro — diceva — è alla base di tutto, mi piace attirare i giovani sui capolavori e faccio cinema da “metteur en scène”, lavoro alla bottega del Rinascimento».