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 2019  giugno 15 Sabato calendario

Biografia di Yeats

Nel 1923 il Premio Nobel per la letteratura fu conferito a W. B. Yeats per «la sua poesia sempre ispirata, che esprime lo spirito di un’intera nazione». Altrettanto «ispirati» sono gli scritti che Ottavio Fatica ha raccolto e curato nel volume intitolato
Magia
, chiudendolo con un suo splendido saggio in cui percorre gli aspetti cruciali dell’atteggiamento di Yeats nei confronti della creazione poetica e del suo interesse per il soprannaturale. Il giovane Yeats (era nato nel 1865) aveva aderito nel 1890 alla società segreta magico-iniziatica dell’Ordine Ermetico dell’Alba Dorata: e la natura di questa sua adesione, determinante per molti aspetti della sua produzione poetica, sta alla base dei saggi raccolti in questo volume.
Yeats è ricordato soprattutto per le sue poesie, che anche di recente sono state riprese per le occasioni più diverse, soprattutto in campo musicale; mentre Easter 1916, la sua lirica dedicata alla rivolta irlandese della Pasqua 1916, campeggia in ogni antologia della letteratura inglese del Novecento. A molti, tuttavia, gli scritti in prosa di Yeats sono del tutto sconosciuti, tranne forse Rosa alchemica, pubblicata, tra l’altro, nella collana «Centopagine» dell’Einaudi per la traduzione di Renato Oliva.
Magia, il saggio con cui si apre il volume, è uno degli esempi più alti del fascino della prosa di Yeats (e della sua passione per il soprannaturale). L’incipit contiene la sua dichiarazione di fede: «Ho finito per credere a così tante cose strane, per esperienza, che non vedo la ragione di mettere in dubbio la verità di molte cose che esulano dalla mia esperienza; e magari ci sono esseri che vigilano su quell’antico segreto, come afferma tutta la tradizione, e non tollerano, e fors’anche puniscono, discorsi troppo disinvolti. (…) Più di una volta durante la stesura di questo saggio mi sono sentito a disagio e ho stralciato un paragrafo, non per ragioni letterarie, bensì perché un episodio o un simbolo che forse non avrebbe significato niente per il lettore mi era parso, chissà mai perché, rientrare tra le cose occulte».
Dopo di che, così indirizzato, il lettore potrà immergersi nella lettura di Rosa alchemica, che racconta l’avventurosa iniziazione del poeta, tra effluvi di incenso, notti misteriose, sogni e risvegli, riti di tipo massonico e danze sufi al rallentatore, con fuga finale del narratore dalla torre dell’iniziazione inseguito da una piccola folla di pescatori. È soprattutto qui, oltre che nelle altre pagine del volume, che, come scrive Ottavio Fatica, è dato leggere la prosa inglese ritmica più bella dall’antichità: «una prosa a diamanti scheggiati che con l’andar degli anni accresce la sua luce», nell’estimo corretto e consonante di Elémire Zolla.
Questa sua attrazione per il sovrannaturale e lo spiritismo, per altro molto diffusa sul finire dell’Ottocento e primo Novecento (seppure in modo non così morboso), ai nostri occhi può sembrare piuttosto ridicolo. O molto ridicolo. Il fatto è che per Yeats la magia non era tanto un tipo di poesia, quanto la poesia una forma di magia. E il suo ricorrere al commercio con gli spiriti, fa notare Ottavio Fatica, «produceva» poesia: «è incontrovertibile come ogni frangente della vita non facesse che alimentare e convogliare alla bisogna le forze spirituali così spesso invocate, o evocate». È pur vero però, che più avanti negli anni, a un giovane intenzionato a recarsi a Fontainebleau presso la comunità esoterica di Gurdjieff, Yeats consigliò di non andarvici, perché, in base alla propria esperienza, sapeva che sette di quel genere «cadono in mano ai ciarlatani».
Accanto al fascino per il sovrannaturale, l’altra «ossessione» di Yeats era il nazionalismo irlandese, che si propose di servire, utilizzando i miti e le leggende popolari a lui care, attraverso i testi teatrali che scrisse e mise in scena allo Abbey Theatre di Dublino nei primi anni del Novecento. Le gesta degli eroi e delle divinità gaeliche che dimoravano nel passato assoluto (quello dell’epica, per dirla con Hegel) avrebbero dovuto rafforzare, o almeno risvegliare, il senso d’identità del popolo irlandese. In più di un’occasione ne risvegliarono il provincialismo bigotto. Yeats, più irritato che deluso, cercò altre strade, seguendo il suggerimento di Ezra Pound che lo aveva introdotto al linguaggio del teatro Nō.
Nel saggio intitolato Certi nobili drammi del Giappone, scritto nel 1916, Yeats racconta di avere composto «un breve dramma che si può rappresentare in una stanza», senza scenografie e con tre musicanti ad accompagnare l’azione. «Ho inventato una forma di dramma raffinato, indiretto e simbolico, che non ha bisogno né del volgo né della stampa per coprir le spese: una forma aristocratica». E si proponeva di scriverne altri di questi brevi drammi, dando così vita a una «nobile forma» di teatro da camera. Che tuttavia non è teatro, perché il teatro ha bisogno del «volgo», cioè degli spettatori che, seduti in sala, partecipano a quella che (oggi come allora) è la «più sociale» delle arti.
Questo chiudersi di Yeats nella torre d’avorio della raffinatezza preclusa ai comuni mortali ebbe poi anche un risvolto politico pateticamente reazionario, che affiora nelle pagine finali dell’ultimo saggio qui raccolto. Meglio dimenticarle e ricordare le sue splendide liriche e questa sua prosa «a diamanti scheggiati che con l’andar degli anni accresce la sua luce».