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 2019  giugno 15 Sabato calendario

Intervista a Miriam Toews

In patria Miriam Toews (si legge «teivs», e sta ai mennoniti come Cohen agli ebrei) è una vera celebrità. Secondo il New York Times la scrittrice canadese è più famosa di molti giocatori di hockey. 55 anni, è nata e cresciuta nella comunità mennonita di Steinbach, paesino di ottomila anime vicino a Winnipeg, agricoltura e grandi praterie nello stato canadese del Manitoba. Questo è forse l’unico nome che avete mai orecchiato per via della farina. I mennoniti sono una setta protestante tradizionale, tipo Amish ma meno famosi, dove le donne portano la cuffia, non si può ballare, né suonare, né bere, né niente. Se non bastasse a segnare la vita di una persona, nel 1998 il padre di Miriam, malato di depressione, si è tolto la vita buttandosi sotto un treno. Dopo dodici anni anche la sorella maggiore Marjorie si è suicidata sotto un treno. Materiale del genere, maneggiato in forma di fiction da una scrittura talentuosa, diventa esplosivo. Va da sé che i romanzi di Miriam Toews sono molto autobiografici e inoltre hanno tutti due caratteristiche: sono profondi ma leggeri e ricchi di umorismo, anche quando raccontano vicende terribili, come la vita oppressiva nella setta o i suicidi. E hanno per protagoniste donne piene di vita, vere eroine femministe.
Perché le tue donne, anche le più sfigate e disperate, trovano sempre la strada verso una sorta di felicità?
«Beh, perché questa è la sfida costante, cercare la felicità, trovarla e essere felici. La sofferenza e la tristezza ci trovano da sole, non abbiamo bisogno di andare a cercarle».
Le tue donne sono incasinate, con vite complicate, ma tu le racconti con ironia. Sei davvero così ottimista?
«La maggior parte delle volte sì. Ci provo, almeno. Ammettiamolo, di questi tempi, guardando il mondo, è abbastanza facile essere pessimisti. E essere pieni di speranza potrebbe sembrare ingenuo. Ma credo che l’ottimismo sia necessario, per influenzare in maniera positiva qualsiasi cambiamento, per il futuro, per le vite dei nostri figli e nipoti, per il nostro pianeta».
Cosa rappresenta la scrittura per te?
«È un atto di protesta, di solidarietà, necessario quanto cibo e acqua. Non per forza pubblicare, parlo dell’atto di scrivere pensieri sulla carta».
Quando inizi un romanzo, parti dai personaggi, dalla trama o da cosa?
«Sicuramente non dalla trama, forse più dalla tematica. Le cose, le idee, la struttura vanno e vengono nelle mia testa... e poi tutto l’insieme diventa qualcosa che ha un senso e allora posso scrivere velocemente. Ma passo molto tempo a pensare, a parlare con me stessa, a prendere appunti illeggibili sul mio taccuino, a vagare con la mente, persa».
Conosci già il finale?
«No, non conosco il finale quando comincio. Non mi piace la parola fine. Mi piace pensare all’ultima pagina del mio ultimo libro come la prima pagina del mio prossimo libro».
A 18 anni scappi dalla comunità, ti rasi la testa, giri in camper, fumi marijuana, sei la ribelle in fuga da manuale, resti incinta a 21 anni. In «La mia estate fortunata» racconti la realtà di una casa per ragazze madri che vivono di sussidi. Quanto è autobiografico questo tuo primo romanzo?
«Tutti i miei libri sono più o meno autobiografici. Quello è stato un periodo molto ricco, in termini di esperienze. Mi sono fatta amicizie per la vita e ho capito che amavo essere madre, che sarei stata bene, che mio figlio sarebbe stato bene, e che avrei voluto diventare scrittrice».
Se non fossi diventata scrittrice, cosa ti sarebbe piaciuto essere?
«Un piccolo attaccante dei Toronto Raptors (sono una squadra NBA di pallacanestro, ndr)».
È a causa della tua infanzia mennonita, piena di regole e divieti, che i tuoi libri sono una continua ricerca della libertà?
«È molto probabile. Fin da bambina sono rimasta molto colpita da quanto eravamo oppresse, soprattutto le ragazze e le donne. Un milione di regole e la maggior parte erano ridicole, arbitrarie. Ho iniziato a pianificare la mia fuga prima di avere la minima idea di cosa ci fosse realmente “là fuori”, oltre la mia comunità. Qualsiasi altro posto sembrava meglio».
Com’è oggi il tuo rapporto con loro?
«Beh, ci penso più spesso di quanto ci vada. Che ci crediate o no, ho molti bei ricordi. In particolare di me, dei miei genitori e di mia sorella che parliamo intorno al tavolo della cucina, ci raccontiamo barzellette, aneddoti e discutiamo di politica».
A vent’anni hai frequentato una scuola di giornalismo per imparare a fare documentari. Poi hai deciso di fare la scrittrice. Come mai?
«Non penso a un fatto specifico. Quando ero bambina raccontare e scrivere storie era divertente, mi serviva a verificare che le cose erano successe, che facevo parte di una storia più grande, la vita sulla terra. Poi, col tempo, è diventato vitale per me scrivere tutto. Immagino che questo sia stato il mio modo di continuare a sentirmi legata al mondo».
Gli uomini nei tuoi romanzi sono assenti o completamente inaffidabili. Perché? È una specie di vendetta? Hai incontrato solo questo tipo di uomini nella tua vita?
«No, no, per niente. Direi che c’è almeno un uomo buono in ognuno dei miei libri. Ho incontrato molti uomini di qualità, nella mia vita. Inoltre, ho un compagno maschio, un figlio, un nipote. Essere femminista, voler “distruggere” il patriarcato, come si suol dire, non significa annullare gli uomini per il semplice fatto che sono uomini. Significa smantellare un sistema misogino. Gli uomini sono nella nostra vita, gli uomini sono parte della conversazione».
Il padre assente è un altro personaggio costante. Questo è legato alla tua esperienza personale?
«In un certo senso, sì. Mio padre c’era, fisicamente, ma a causa della sua malattia spesso sembrava essere assente. Il padre biologico di mio figlio invece era assente in senso letterale».
Adesso vivi con tua madre.
«Viviamo insieme dal 2010, quando si è trasferita a Toronto, dopo che mia sorella è morta. Il mio compagno e io stiamo al secondo piano della casa e mia madre vive al piano nobile. Ci sono sempre un sacco di persone in visita, pernottano, passano in città, compresi i miei figli adulti e i loro figli, altri scrittori, parenti. È una casa molto impegnata».
Hai vissuto quasi tutta la vita a Winnipeg, a pochi chilometri dalla comunità mennonita dalla quale eri fuggita, come se qualcosa ti tenesse legata ancora lì. Perché alla fine ti sei trasferita a Toronto?
«Mio marito ed io abbiamo divorziato e mio figlio si è trasferito a New York per l’università, e Toronto è molto più vicina a New York di quanto lo sia Winnipeg. Mia figlia stava finendo la scuola superiore e voleva studiare commedia a Toronto. Era il momento buono per cambiare».
Visto che i tuoi romanzi sono così autobiografici, pensi che sapere la storia personale dell’autore influenzi il lettore?
«Forse all’inizio. Ma di solito, come lettrice, mi immergo nella storia e dimentico la connessione dell’autore con il contenuto del libro».
Hai una casa piena di gente, ti occupi di tua madre, sei anche nonna. Com’è la tua giornata tipo?
«Scrivere, camminare, rispondere alle mail, fare da baby sitter ai miei nipotini, aiutare mia madre, fare commissioni. Talvolta giocare a tennis, se sono fortunata!».
Che libro hai sul comodino?
«Run Me To Earth di Paul Yoon. E What you Heard Is True: a memoir di Carolyn Forche. Entrambi straordinari!».
C’è una cosa che non rifaresti?
«Il “bumper shine”. È una cosa che i ragazzi canadesi fanno in inverno. Ti accovacci e ti attacchi al paraurti posteriore di una macchina, così l’autista non può vederti e ti fai trainare scivolando sul ghiaccio».
Qualcosa di cui ti sei pentita?
«Le cose crudeli e offensive che ho detto alle persone che amo».
C’è qualcosa di cui sei molto fiera?
«I miei figli».
Per cosa ti piacerebbe essere ricordata?
«Chissà! Sarei già contenta se qualcuno semplicemente mi ricordasse».