Robinson, 15 giugno 2019
Biografia di Francesco (Citto) Maselli raccontata da lui stesso
Come l’uomo di Similaun, restituito dai ghiacci, Citto Maselli rivendica orgoglioso la propria origine ideologica. Non è un nostalgico e non ha rimpianti. Vive in un punto ormai remoto della storia. Ma è come se dicesse: sono stato quella roba lì, quel comunismo di cui rivendico orgogliosamente la funzione e non avrebbe alcun senso che oggi io dicessi: mi ero sbagliato. “Citto”, diminutivo di Francesco, è un uomo fine, colto, sereno malgrado gli 88 anni che pesantemente ne incalzano l’esistenza. Stasera gli viene consegnato, nell’ambito della Milanesiana, la manifestazione ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, il premio per i film che hanno a loro modo segnato un capitolo della storia dell’impegno, in particolare Lettera aperta a un giornale della sera dove un gruppo di intellettuali civetta con la lotta a favore del Vietnam. Che anno era quando il film uscì? «Era il 1970. Puoi immaginare il clima politico di allora. Grandi proclami a sinistra e la sensazione che le parole contassero più dei fatti. Un gruppo di tormentati intellettuali decide di scrivere a un importante quotidiano un appello che invita ad andare in Vietnam, allora in guerra contro gli Stati Uniti. E quando il loro proclama viene preso sul serio e sembra che davvero debbano partire, sono presi dallo smarrimento. Ma da Hanoi fanno sapere che non vogliono più l’intervento della brigata internazionale della cultura. Prevale dunque un senso di sollievo. Il film finisce con loro che invece di partire improvvisano con un barattolo una finta partita di pallone». Avevi già chiaro allora il velleitarismo rivoluzionario? «Era evidente in una classe intellettuale che si proclamava di sinistra, ma nei fatti difendeva i propri privilegi». Tu provieni da una famiglia di intellettuali. Tuo padre critico d’arte, tua sorella Titina pittrice importante, tuo cognato Toti Scialoja, la tua prima compagna Goliarda Sapienza. Sparavi anche contro di loro? «Ma no, anche se Titina e Goliarda hanno una parte nel film. Distinguerei tra la mia formazione e quello che poi accadde sul finire degli anni Sessanta». Sei nato a Roma? «Sì, anche se le mie origini sono molisane. Mio padre Enrico scriveva per il Messaggero, era come tu ricordavi un critico d’arte riconosciuto dall’ambiente culturale romano. Amico intimo di Luigi Pirandello che sarà anche il mio padrino. A casa nostra venivano spesso Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli, Alberto Savinio. Uno dei riti domenicali era andare il pomeriggio a casa di Emilio Cecchi. Oppure al caffè Zeppa in via Veneto, che oggi non c’è più, frequentato dai giornalisti. Mio padre si incontrava con Mario Pannunzio, Manlio Lupinacci e Paolo Monelli che faceva il suo ingresso sottobraccio alla sua compagna Palma Bucarelli. Fu il pomeriggio del 23 luglio del 1943 che una macchina nera si fermò davanti al caffè e due uomini vestiti di scuro prelevarono mio padre e lo portarono a Palazzo Braschi». Che cosa era accaduto? «Una denuncia anonima l’ accusava di antifascismo. Fu picchiato ma non torturato. Due giorni dopo cadde il fascismo. La notte del 25 luglio gli aprirono la cella. Sulla strada, lungo Corso Vittorio Emanuele, vide un gruppetto di persone che gridava: “A morte il Duce”». E il tuo antifascismo? «Si è forgiato a scuola e poi nella frequentazione di compagni un po’ più grandi: Aggeo Savioli, Luigi Pintor e soprattutto Alfredo Reichlin. In pratica entrai nella Resistenza a 14 anni. Quando finalmente Roma fu liberata, mi iscrissi al Pci». Coincise con il tuo impegno nel cinema? «Scoprii il cinema nel 1941. Carlo Lizzani aveva installato un proiettore e delle poltrone in una sala di via Borgognona. Lì vidi Le ballet mécanique di Fernand Léger, L’étoile de mer di Man Ray e Un chien andalou di Luis Buñuel. Capii che quel mondo sarebbe diventato il mio mondo. Nel 1946, a 16 anni, feci l’esame per entrare al Centro sperimentale di cinematografia, allora diretto da Umberto Barbaro». Come andò? «Preparai uno scritto che, nonostante l’età, venne considerato maturo e brillante. Tra gli esaminatori c’era anche Michelangelo Antonioni che fu generoso nei miei confronti proponendomi, qualche tempo dopo, di fargli da aiuto per L’amorosa menzogna e poi per Cronaca di un amore». In quegli anni esplodeva rigogliosa la stagione del neorealismo. «Che ti devo dire? A me è parso un fenomeno che accanto ad alcuni indiscutibili capolavori ha prodotto parecchie cose mediocri. Ho imparato molto più da Antonioni, Visconti, Blasetti che dal neorealismo». Con Blasetti che c’entravi? «Il tramite fra lui e me fu Goliarda Sapienza. Andavo sul set mentre Goliarda, che sarebbe stata per tanti anni la mia compagna, recitava. Io e Nanni Loy, mio compagno di regia, ci nascondevamo in teatro per vederlo dirigere. Una lezione di regia. Altro che Centro sperimentale o neorealismo!». E Rossellini? «Dopo Paisà, francamente non saprei dirti. Con Europa 51 perse il filo. Lo ritrovò con lo straordinario La presa del potere di Luigi XIV. In generale penso che la sua fama sia leggermente superiore alla bravura». Visconti tutta la vita, dunque. «Se penso a La terra trema ancora adesso mi emoziono. Un film assoluto. Un giorno LuchinoVisconti mi invitò in un noto ristorante romano, dalle parti di Piazza del Popolo, insieme a Georges Sadoul. Fui presentato al grande storico del cinema come un giovane talento che, secondo Visconti, avrebbe dovuto girare il seguito de La terra trema. Ovviamente quell’auspicio mi riempì di gioia. Ma la cosa più incredibile fu che Sadoul lo prese sul serio e lo scrisse in un articolo apparso sul giornale francese l’Humanité Dimanche. Mia sorella Titina che si trovava a Parigi lo lesse e mi telefonò per segnalarmelo». Avevi la benedizione. Realizzi qualche documentario e poi il tuo primo film “Gli sbandati”. «Il film è del 1955, racconta di un gruppo di giovani borghesi durante l’occupazione tedesca del 1943: darsi alla clandestinità oppure far finta di niente? Era questo il dilemma. Il film fu portato a Venezia ed ebbe grandi riconoscimenti». Lo giudichi il tuo miglior film? «Credo che la mia cosa migliore sia Gli indifferenti, tratto dal romanzo di Alberto Moravia. Scelsi attori internazionali come Rod Steiger, Shelley Winters, Paulette Goddard e una giovane ma già bravissima Claudia Cardinale». A Moravia piacque? «Sì, molto. Anche se, disse, il film si distanziava dalla struttura letteraria del romanzo». Il film uscì nel 1964. Com’erano quegli anni nel partito comunista? «Ti riferisci a qualcosa di particolare?». C’era stato il trauma del 1956, lo scontro Urss-Usa per i missili di Cuba, l’assassinio di Kennedy. La sinistra classica, i suoi intellettuali, che facevano? «Il punto di rottura fu l’Ungheria del 1956. Ci fu una discussione drammatica, mi ricordo, nella redazione dell’Unità. Ingrao aveva le lacrime agli occhi, Alicata cercava di arginare quel tumulto emotivo. Mario, che era il responsabile culturale del partito, mi tolse il saluto convinto che anch’io sarei uscito dal Pci». E invece? «Restai, pensando che le battaglie si fanno dall’interno». Ti piaceva così tanto il Pci? «Mi piaceva e non mi piaceva. Non ero mica cieco. Vedevo che nel partito c’era una nutrita e potente frangia filosovietica. Quando girai Il sospetto feci un’anteprima per i dirigenti. Durante la proiezione sentii l’indignazione montare in sala. I filosovietici come Colombi, Roasio, Cervetti erano furibondi». Cosa non gli andò giù? «Raccontavo una storia di infiltrati, rimarcando la condotta cinica e perfino brutale del Pci durante la clandestinità. Quando si accesero le luci percepii il gelo intorno a me. Poi a un tratto si alzò Luigi Longo, il segretario, e cominciò ad applaudire». Secondo te Longo è stata una figura sottovalutata? «Tantissimo. Quando L’Unità prese posizione contro i carri armati sovietici che avevano invaso Praga, il gruppo dirigente del Pci fu convocato a Mosca. Longo pregò i compagni di non mangiare niente del cibo che veniva offerto loro. Temeva che li avvelenassero!». Tu hai realizzato quasi solo film di impegno politico. La commedia non ti attraeva? «Ho provato a farla con un paio di film nel 1967 e nel 1969. Ricordo che ne parlai con Karel Reisz, un comunista tosto che era all’epoca il compagno di Betsy Blair, la ex moglie di Gene Kelly. Durante una vacanza ci dicemmo che forse avremmo dovuto fare film più leggeri. La conclusione fu che lui girò Morgan matto da legare, un film ironico e bellissimo, io feci una schifezza con Fai in fretta a uccidermi. Davvero un tentativo patetico». Che giudizio dai della commedia all’italiana? «Allora, quando imperava nei nostri cinema, mi sembrava qualunquista. Forse ero troppo esigente. Del resto, lo stesso Scola quando girò Una giornata particolare disse che la stagione della commedia fu attraversata dal qualunquismo». Tu un film come “Il sorpasso” lo definiresti qualunquista? «Certo che no. Dino Risi, Ettore Scola, Mario Monicelli sono stati fior di artigiani». Scola gira “La terrazza”, che a me sembra la prosecuzione di “Lettera aperta a un giornale della sera”. «Entrambi sono film corali. Quello di Ettore uscì nel 1980, esattamente dieci anni dopo il mio. Mi sembrò un film intimista sulle ragioni della fallimento di un’idea di rivoluzione». Scola ti chiamò anche per un piccola partecipazione. «Poco più di un cammeo. Io interpretavo il rompicoglioni che, guarda caso, scrive una lettera indirizzata a un giornale. Una presa in giro, gradevole. Poi, per finire su questo, nel 2008 giro Le ombre rosse, a proposito di fallimenti politici quel film li mette bene in mostra». So che lo dedicasti a Sandro Curzi. «Con Sandro Curzi siamo stati amici fin dalle elementari. Morì poco prima che il film uscisse nelle sale. Andai con la sceneggiatura a trovarlo in ospedale. Era prostrato nel letto. Gli raccontai la trama e lui disse: “Citto mio, che cazzo di finale. Cambialo! Non puoi non dare una speranza a chi ha creduto in un’idea!”. Seguii il suo consiglio». Speranza è ancora una parola che leghi al partito comunista? «La fine del Pci è stata una tragedia. Oltretutto la si è voluta accomunare alla fine dell’Unione Sovietica. Ma erano due cose ben distinte. Io non sono uscito dal Pci. È il Pci che è uscito da me. Nonostante questo ho cercato di restagli fedele. Non per ortodossia, ottusità, o nostalgia. Come quei vecchi reduci che non mancano occasione per piangersi addosso. In giro, a sinistra, ho visto prevalere l’autolesionismo che sovente si è trasformato in disprezzo per le classi meno abbienti. A parole tutti dicono di essere per l’uguaglianza e per la fraternità. Nei fatti invece mi pare che ci sia ancora molta strada da coprire. Il mio cinema, per quel poco che ha contato, ha marciato in quella direzione. Privilegiando il conflitto e la lealtà e non tacendo i problemi. A volte mi scopro pirandelliano: uno, nessuno, centomila. E la speranza, come si dice, è l’ultima a morire».