Robinson, 15 giugno 2019
Intervista a Laura Linney
Nel 1993 Laura Linney ha 29 anni, partecipa a un provino, lo supera, diventa la protagonista della serie Tales of the City nel ruolo di una ragazza del Midwest la cui vita viene rivoluzionata dal trasferimento a San Francisco, metà anni Settanta, dove entra in contatto con la comunità Lgbt, quella raccontata da Armistead Maupin nei romanzi pubblicati in Italia con il titolo I racconti di San Francisco (1978), Nuovi racconti di San Francisco, Ritorno a San Francisco. Nel quarto romanzo, 28 Barbary Lane (1984), Maupin sarà il primo scrittore ad affrontare il tema dell’Aids. L’ultimo è dell’89, Sure of you. Oggi Laura Linney ha 55 anni e mai avrebbe immaginato che il ruolo di Mary Ann Singleton avrebbe avuto un significato così importante nella sua carriera e nella sua vita privata. «Mi ha reso più colta, ha reso la mia vita più ricca, sono diventata un piccolo simbolo della comunità e di questo vado fiera» ci dice quando la incontriamo alla Palihouse di Hollywood per parlare di Tales of the City versione 2019, stesso titolo ma nuova serie, disponibile su Netflix. È la quarta volta che Laura Linney interpreta Mary Ann. Alla serie originaria sono seguite More tales of the City (1998) e Further Tales of the City (2001). Quelli appena usciti sulla piattaforma streaming sono nove nuovi episodi: Mary Ann torna a San Francisco, da dove se ne era andata quasi vent’anni prima perché al marito e alla figlia aveva preferito la carriera. In fuga da un’età di mezzo e dalla vita perfetta che si era ricostruita in Connecticut si tuffa di nuovo nel mondo dell’eccentrica Anna Madrigal (Olympia Dukakis) e degli altri personaggi variamente assortiti che vivono a Barbary Lane. Laura, sono passati oltre 25 anni da quando Mary Ann mise piede per la prima volta al 28 Barbary Lane nel quartiere di Russian Hill. Che cosa l’ha spinta a tornare? «Prima di tutto il rapporto con Maupin, siamo diventati grandi amici. Ma il motivo è anche che questa serie ha assolto un compito fondamentale di ogni produzione artistica: rappresentare un luogo che per noi ha un significato, in cui ci si senta meno soli, che ci renda migliori». Come in passato, anche in questi nuovi episodi, si affronta il tema dell’Aids. Non se ne parla mai abbastanza. «Credo che l’obiettivo fosse quello di passare il testimone da una generazione all’altra. I romanzi di Maupin sono sempre stati all’avanguardia da questo punto di vista e mai hanno trascurato il fatto che l’Aids ormai fa parte della storia d’America. È uno dei temi che la comunità Lgbt ha dovuto affrontare, e continua ad affrontare, in chiave politica e di difesa dell’identità sessuale». La nuova serie è anche lo specchio di cambiamenti importanti avvenuti in una città come San Francisco, simbolo delle battaglie per la difesa dei diritti Lgbt e non solo. In che modo lo racconta? «Ruota tutto intorno a Barbary Lane. È il luogo in cui la condivisione si è trasformata in protezione, in cui l’unione ha fatto la forza contro gli errori della politica e i mutamenti in negativo della nostra società. Un luogo di appartenenza e salvezza, una grande casa che ospita affetti e solidarietà». Anche Mary Ann sarà cambiata, dopo tutti questi anni. «Ho ritrovato gesti e abitudini che ho reinterpretato con la consapevolezza della maturità. Quella donna mi piace, tutti la considerano rigida e naïf ma in realtà è una tosta che ha avuto il coraggio, forse l’incoscienza, di fare scelte spericolate. Ne ha goduto, ne ha pagato il prezzo, torna a cercare quello che aveva perduto perché ha capito che le radici sono importanti». Suo padre Romulus Linney era un apprezzato drammaturgo. Lei ha ricevuto tre nomination all’Oscar, per “Conta su di me”, “Kinsey” e “La famiglia Savage”. Grazie alla tv ha conquistato Emmy e Golden Globe, la vediamo anche in un’altra serie, “Ozark”. Anche lei è nella squadra di quelli che pensano che giocare nelle serie sia quasi meglio che giocare al cinema? «Il cinema è cambiato, non è più quello che si faceva un tempo, men che mai ci sono i film indipendenti che si giravano anni fa, coraggiosi e innovativi, ti davano modo di costruire il personaggio, di prenderti il tuo tempo. Un attore che abbia voglia di lavorare bene cerca talento, professionalità e un buon progetto». Le serie rispondono a queste esigenze? «Le produzioni seriali oggi rappresentano quello che un tempo era il cinema indipendente. Trovi ruoli da affrontare con profondità, hai il tempo di lavorarci, di studiare. Gli artisti vengono sostenuti e aiutati ma in modo autentico. Non come a Hollywood, dove ormai l’unico obiettivo è creare attesa, fare promozione, guadagnare. Grazie alle serie sono tornata a respirare davvero».