Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  giugno 15 Sabato calendario

Biografia di Nureyev

Non un cigno nero ma un corvo bianco. Per raccontare Rudolf Nureyev al cinema Ralph Fiennes ha scelto un animale meno aggraziato ma più calzante rispetto a colui che ha rivoluzionato il mondo della danza nel Novecento: personalità unica, carattere impetuoso, vita sentimentale intensa, scelte eclatanti. In Nureyev – The white crow, terzo film da regista, in uscita il 27 giugno, Fiennes intreccia tre periodi del ballerino nato su un vagone della Transiberiana, morto a Parigi nel ’93: l’infanzia a Ufa, nell’Unione Sovietica anni Quaranta, gli anni da studente a Leningrado, l’arrivo a Parigi, la richiesta d’asilo in Occidente che lo ha reso celebre nel mondo. Qualche tratto in comune tra i due artisti: l’attore britannico, raffinato interprete scespiriano che si divide tra teatro, cinema d’autore e mainstream, una vita pubblica attraversata dall’impegno (con l’Unicef) e da qualche scandalo (sesso in volo con hostess, bagno nudo con donne in una piscina d’albergo) che non ne ha scalfito la popolarità. L’incontro con Fiennes, 56 anni, un misto di flemma, passione per il cinema e humour, è nel patio di un albergo spagnolo. Fiennes, l’idea di raccontare Nureyev arriva da lontano. «Quasi vent’anni. Non avevo alcun interesse per il balletto né sapevo molto di lui prima di leggere la biografia scritta dalla mia amica Julie Kavanagh. Sono rimasto folgorato dalla storia, dalla sua personalità. La spinta del talento, la spietatezza che ne consegue». Non era facile trovare un interprete all’altezza. «Alla fine di una lunga ricerca in Russia, c’erano cinque candidati. Ho scelto l’ucraino Oleg Ivenko perché era ballerino eccellente, somigliava a Rudolf e aveva un istinto naturale per la recitazione». Per sé ha scelto il ruolo – quasi calvo e ingrassato – di Alexander Pushkin, il mentore di Nureyev. «Non mi piace recitare nei film che dirigo. Cercavo attori non famosi ma i produttori hanno insistito sul fatto che la mia presenza avrebbe aiutato. E ho capitolato. Ora sono anche contento, sul set ero preoccupato del disegno generale». Continuerà con la regia? Il suo nome è legato a diversi progetti… «Non ci creda, non c’è nulla in vista. Sopratutto non so se dirigerò ancora. È stato troppo difficile questo film, stressante, specie per la parte economica. Sono felice di tornare a fare l’attore, aspetto qualche bel personaggio». Qualche ruolo che le dispiace aver rifiutato? «Nessun rimpianto. Stavo per rifiutare Voldemort, come forse saprà. Forse quello mi sarebbe dispiaciuto. Mi ha fatto cambiare idea mia sorella». I registi che l’hanno più influenzata? «Anthony Minghella, István Szabò, Fernando Meirelles. Wes Anderson mi ha regalato allegria, i suoi set sono una famiglia. Minghella era gentile, ti faceva arrivare alle cose con delicatezza, Spielberg ha un approccio più diretto ma è onesto e sincero su ciò che funziona e ciò che non va. Gli devo molto, Schindler’s List mi ha fatto conoscere al mondo e mi ha dato una candidatura all’Oscar. È stata una esperienza indimenticabile. Intensa e dolorosa. Non dimentico la scena con le comparse-prigionieri nude, veniva loro urlato di andare in un posto o nell’altro… Avevo davanti l’orrore della Storia. Un momento profondamente disturbante». La Brexit danneggia il cinema europeo? «Molto di ciò che sono e ho ricevuto arriva dal mio sentirmi europeo. Ho sempre immaginato un’evoluzione positiva dell’Europa, nel senso di inclusione e consapevolezza. I governi di destra in Italia, certi discorsi nel vostro Parlamento sull’immigrazione, sono preoccupanti. Così come la situazione in Polonia, l’autoritarismo della Russia. Il nazionalismo della destra nel mio paese mi preoccupa, come la divisione sulla Brexit. Mi consola l’idea che malgrado tutto da noi ci sia ancora la libertà di esprimere le nostre idee con la cultura». Il cinema e l’arte cambiano il mondo? «Penso, spero di sì. Il cinema è un veicolo di cultura. Un cartone animato può sensibilizzare un bambino all’accettazione, alla tolleranza. Ma l’arte non può stringersi nella gabbia della politica, deve essere libera di provocare, trasgredire. Io sono più coinvolto dalle storie che scavano nella condizione umana e nei legami familiari, microcosmi che raccontano l’universale: penso alla famiglia cechoviana, ai film di Ozu e Bergman. Un cinema di nicchia in un panorama monopolizzato dai kolossal». Lei ne ha fatti parecchi, da Harry Potter a Bond. «Quanto a Bond, mi piace pensare di aver fatto un film con Mendes, più che di 007. Sam è intelligente, mi pareva ottima la sua idea di rinnovare la saga. In Harry Potter J.K. Rowling ha ritratto in modo chiaro cosa siano le forze del male, della coercizione, del totalitarismo. Ha dichiarato di essersi ispirata ai fascisti nel disegnare i Mangiamorte. Il fatto che i protagonisti imparino a riconoscere e combattere queste forze mi sembra un messaggio positivo». Dal nazista Amon Göht a Voldemort, i cattivi regalano una bella popolarità. «Ricordo persone che mi insultavano in strada ai tempi di Schindler’s List, un ragazzino terrorizzato perché aveva visto in me Voldemort. Ma non mi voglio abbonare ai cattivi, forse non ne farò più: nel prequel di Kingsman sarò un gentiluomo pacifista». Corregge spesso chi pronuncia il suo nome “Ralf”, invece è “Reif”. Ci tiene molto? «È un affare di famiglia. “Reif” è la vecchia pronuncia del nome Ralph, viene dal compositore inglese Ralph Vaughan Williams. Ho sempre seguito le indicazioni dei miei genitori sulla pronuncia del mio nome, ed è finita che tutti mi chiamano “Ralf”. Allora rimpiango di non aver cambiato il nome in “Rafe”, cosi sono diventato Rafe-Ralph».