Robinson, 15 giugno 2019
Biografia di Renato Mambor
Bello, dannato, generoso. Renato Mambor torna sulla scena, a quasi cinque anni dalla sua morte, grazie a un film e ad un progetto artistico che permettono di riscoprire il valore di un vero outsider. Pittore, teatrante, fotografo, buddista, appassionato di esoterismo e di giocattoli ( in un’opera si confronta con figure giganti del calcio balilla). Partito da un distributore di benzina, proprietà del padre, era affamato di arte e vita: «Mangiavo e ingoiavo i giorni con avidità». Era finito per caso nel film La Dolce Vita, dopo aver incontrato Fellini tra le pompe di benzina. Pare che il regista gli abbia detto: «Ma tu sai ballà?». E lui: «So er meglio tacco der Quadraro». La sua storia è nei quarantasette minuti girati da Gianna Mazzini: un documentario toccante che verrà proiettato durante la Biennale cinema di Venezia ( dal 28 agosto al 7 settembre, isola Edipo). Era stato Mambor stesso, già malato, a volerlo: «Un giorno mi ha chiesto di fargli un ritratto con le immagini», racconta Gianna Mazzini. Al film partecipa anche Patrizia Speciale, la compagna della quale Mambor diceva «è più intelligente di me», la prima spettatrice delle sue opere. Il protagonista è uno “strano ragazzo” (così si definisce lui stesso) che andava male a scuola ma custodiva l’arte nel corpo. Quel corpo che sarà al centro della sua esplorazione artistica fin dagli anni di formazione nella scuola romana di Piazza del Popolo. Amico di Mario Schifano e della banda che s’incontrava al caffè Rosati, Mambor diventerà famoso negli anni ’60 con l’Uomo statistico, la serie delle sagome di omini senza volto arrivate molto prima che i social si affidassero a simboli, faccine e icone spersonalizzate. Poi arriveranno le Azioni fotografate, le bocche cucite, i corpi costretti da lacci e gli oggetti come la mano meccanica dell’Evidenziatore. Infine il teatro, nel quale Mambor diceva di essere scivolato. Questo film speciale è stato fatto vedere a quattro artisti che non conoscevano l’opera di Mambor, scomparso nel 2014: un attore, Fabrizio Gifuni; uno scrittore, Emanuele Trevi; un musicista, Andrea Satta e un poeta, Stefano Dal Bianco. A ciascuno è stato chiesto di tirare fuori una parola che racchiudesse il senso delle immagini. Ne è nato il progetto Parola chiave Mambor, ideato e curato da Silvia Jop (Kama Productions), una navigazione dentro l’opera dell’artista romano e un modo per ricrearla, dialogarci, rimetterla in movimento. Gifuni, sedotto dalla dimensione ludica, ha scelto il “gioco”, perché Mambor «bello più di Cassavetes, ha giocato incessantemente con i corpi regalandogli forma e misura». L’opera di riferimento è Re di cuori, cinque sagome di uomini una delle quali ha un metronomo al posto del cuore. Trevi ha puntato sulla “vecchiaia”, il momento in cui «non puoi contare più sugli altri, non puoi più nasconderti tra tutti, non puoi che essere te». Dal Bianco sulla “distrazione”: «Una figura ricorrente nei quadri più recenti di Mambor è l’Osservatore: una sagoma di spalle, intenta ai più svariati oggetti di contemplazione, sullo sfondo. In mezzo tra chi osserva e chi viene guardato c’è lo spazio della coscienza». Andrea Satta parla di “prospettive”, affascinato dalle tracce stradali realizzate dall’artista: «La riga bianca, il colore, la ruga della carne e il tempo» ( le date delle proiezioni nel box sotto). A Venezia sarà inoltre installata la Trousse, una scatola vuota che diventerà un luogo di performance a cielo aperto. L’ultima foto di Mambor è su un ring. Un regalo inedito del film. Magrissimo, vecchio, bellissimo, Mambor mostra i guantoni.