ItaliaOggi, 15 giugno 2019
C’era un fiordo in Calabria
In Calabria c’era un fiordo, navigabile fino al Medioevo. E non un fiordo qualsiasi: pare che il pescaggio oscillasse fra i 28 e gli 80 metri. I Romani lo sfruttarono abbondantemente e così anche chi venne dopo, fino ai Normanni. Oggi la fiumara dell’Amendolea, all’estremo lembo Sud dell’Italia, è diventato un luogo di passeggiate domenicali. Effetti del sisma del 1783 e della cosiddetta «frana Colella»: il letto si è riempito di massi e sabbia e la fiumara è diventata come la vediamo oggi. Nonostante un innalzamento di oltre 28 metri in 150 anni, ancora si intuisce la presenza delle due isolette proprio di fronte alla Rocca del Lupo nel punto di convergenza dell’Amendolea con il suo maggiore affluente, il Pisciato.Basse ma impervie montagne incorniciano gli oltre 38 chilometri della fiumara. Per sentieri sconosciuti ai più, ci si imbatte in paesaggi inattesi, presepi incastonati dentro dirupi, che stroncano il fiato per la loro possente e cruda bellezza. Arrivare sul posto per i trekking «non fa parte della modernità»: non ci si rivolge cioè a un’agenzia di viaggi ma a delle organizzazioni locali di volontari che mappano i sentieri e ne curano la pulizia, magari conosciuti sui social. Come l’associazione «Sentieri d’Aspromonte» di Condofuri Marina (Rc). Perché almeno Facebook, da queste parti, al contrario del segnale per il cellulare, «prende».
Ogni escursione si conclude sedendo a grandi tavole imbandite, per lo più improvvisate, fraternizzando con personaggi più genuini dei loro stessi cibi, gente d’Aspromonte che la Monsanto non l’ha mai nemmeno sentita nominare, aziende agricole che «bio» lo sono da secoli senza saperlo.
Persone allegre e generose, dai discorsi chiari, la cui parola ha la forza di un contratto. Caldo sorriso quando ti aprono la porta di casa, salda stretta di mano quando dichiari il tuo nome, amichevole pacca sulla spalla mentre ti guidano verso la dispensa. Con quella generosità che, negli uomini della loro razza, ha l’intensità e la profondità di un atto sacro.
E mentre gusti dei piatti che più son difficili da pronunciare, più saranno difficili da dimenticare, qualcuno dopo il secondo bicchiere di vino apre lo zaino della memoria. E ti racconta che nel 1454 fu barone di Amendolea tale Antonello Malda, che acquistò il feudo per 600 ducati dal marchese di Gerace, Giovanni Centelles.
Dai racconti popolari che si sono tramandati nel tempo viene indicato un tale di nome «Maddhà», che sarebbe caduto in un luogo (detto appunto «Mano di Maddhà») nei pressi dei cosiddetti «tre limiti», dove su di un faggio pare si fosse impressa una mano: la sua, insanguinata. Si narra che questo signore fosse un uomo spietato e che sulle donne amasse esercitare lo jus primae noctis: a causa di una di queste sue pretese, avanzata nei confronti della moglie del fratello, si sfociò in una terribile lite e in un tradimento culminato in un agguato.
E non può mancare la leggenda di diretta derivazione greca, come quella delle «Naràde», corrispondenti alle Nereidi o Naiadi, ninfe delle acque sorgive e delle fonti: è un mondo agropastorale, dotato di una lingua (il «greco di Calabria») che ha 72 vocaboli diversi per «capra» e nessuno per «porto» o «spiaggia», che ha bisogno di spiegare alcuni fenomeni col mito.
Per i Greci di Calabria le Naràde erano gli esseri crudeli per antonomasia: creature notturne, metà donne e metà asini, che se ne andavano in giro a cavalcioni di un ramo di sambuco ed erano ghiotte di latticini. La loro caratteristica? Adescare le ignare donne grecaniche presso i ruscelli, al momento del bucato, per poi ucciderle e usurparne i mariti.
L’Amendolea è la fiumara regina dell’Aspromonte. Favole o leggende ne forgiano l’anima. Come quella delle cicale che Zeus ammutolì per far riposare il figlio Eracle (incredibilmente alla sinistra del torrente Amendolea le cicale non sostano un attimo di frinire, alla destra invece sono mute). E le storie dell’antica Peripoli (una città talmente ricca da battere moneta propria e possedere una propria flotta navale) con i suoi figli illustri Pasitele ed Eutimo. I paesini che sull’Amiddalia (in greco di Calabria, mandorleto) insistono, hanno nel Dna la tragica capacità di intrappolare le persone e costringerle a pagare i loro errori per il resto della loro vita, tramandandoli per generazioni.
Si racconta che nel castello dell’Amendolea ci fosse un prete che approfittava di ingenue parrocchiane: una volta scoperto, fu rinchiuso in una botte dalle pareti chiodate, poi la botte venne spinta giù dal pendio del castello e rotolò fino alla fiumara. È il primo e finora unico prelato-fachiro di cui si abbia notizia.