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 2019  giugno 15 Sabato calendario

Tre libri su Berlinguer

Dopo tutto, a cosa servono i santi? E dunque: Santo Enrico, proteggi quel poco che resta della sinistra da questo tempo amaro, stupido e cattivo! In mancanza ormai di religione, liturgie e iconografie rosse, alle canoniche e replicate novene e invocazioni possono corrispondere i ricordi e le riedizioni di scritti edificanti, per cui è significativa l’uscita in contemporanea di due libri, anzi tre: La sfida interrotta: le idee di Enrico Berlinguer, di Walter Veltroni, già pubblicato da Baldini & Castoldi nel 1994; e Casa per casa, strada per strada: la politica delle idee, sempre di e su Berlinguer, a cura di Pierpaolo Farina, volume che vide la luce nel 2013 con la prefazione di Eugenio Scalfari per le edizioni Melampo di Nando Dalla Chiesa, oggi rinate all’insegna di Zolfo. Come si vede, entrambi i volumi nel sottotitolo fanno riferimento alle “idee”, che nell’ultimo grande leader del Pci presero la forma di “pensieri lunghi”, tutt’altro che disprezzabili nel mare magnum di invettive, semplificazioni e scemenze social che intasano i social. Ma il modo, le sedi e i contesti in cui quelle “idee” vennero espresse e sono oggi riproposte – si tratta di rapporti e conclusioni rese al Comitato Centrale, relazioni, conversazioni, articoli interminabili, interviste che occupano dalle 11 alle 27 pagine – le rendono purtroppo oltremodo faticose per il lettore odierno, e anche un po’ ostiche nel linguaggio di allora, trascinando inevitabilmente il nucleo anche vitale del berlinguerismo verso la “mattonata” – che pure, se ai tempi non veniva recepita così, a volte viene da pensare che forse ci vorrebbe ancora. Di tutt’altro genere lo smilzo, squisito libricino che Antonio Padellaro ha pubblicato con PaperFIRST, Il gesto Di Almirante e Berlinguer, e che ruota attorno agli incontri segreti ( ve ne furono tra i 4 e i 6 dal 1978 al 1979) che il capo comunista e quello del neofascismo, in teoria ma anche in pratica acerrimi nemici, ebbero nelle ore morte del venerdì sera all’ultimo piano di Montecitorio, ovviamente al riparo dagli sguardi; e per quanto tuttora non si comprenda né la ragione né gli effetti di quei colloqui a due (potrebbe essere il terrorismo), di nuovo la turbo- chiacchiera e la vacuità del presente enfatizzano il valore del rischioso gesto, oltre a indicare come in un tempo di roventi passioni trovasse posto anche un perduto sentimento cavalleresco ( in questo senso va ricordato che Almirante, a suo azzardo, volle rendere omaggio alla camera ardente del nemico mettendosi in fila davanti al palazzo delle Botteghe Oscure). Tutto questo per dire che sì, certo: la triste bassezza dell’oggi glorifica, per non dire santifica Berlinguer ben al di là dei risultati della sua politica. Con tutte le possibili giustificazioni, il compromesso storico fu in effetti fallimentare; lo sganciamento dai sovietici avvenne con eccessiva lentezza e timidezza; il rapporto con Craxi e il Psi risultò insieme troppo brusco e superbo; e per quanto antiveggenti, le ultime rielaborazioni dopo la rottura con la Dc ( su governo mondiale, sviluppo sostenibile, tecnologia, donne, emarginati, questione morale con annessa “diversità”) restarono come appese nell’aria dell’imminente disastro. Nell’introduzione della raccolta replicante Veltroni ha lasciato il passaggio in cui avvicina Berlinguer a Robert Kennedy; così come Farina dedica il suo impegno a Giulio Regeni. Eppure, il personaggio storico severamente rifugge dall’attualità, se non alla rovescia, e da ogni suggestione pop. Era un comunista vero, quindi un uomo d’altri tempi; e se Craxi notò che non aveva “neanche” la tv a colori, non basta che una volta si sia fatto prendere in braccio da Benigni per raffigurarselo con lo smarphone in mano, a sghignazzare sulle vignette o a scambiarsi maglie di squadre di calcio. Di più: fu sempre restìo a pubblicare i suoi interventi, e viene l’ansia al pensiero di come avrebbe accolto la proiezione del film della sua vita all’Auditorium con Lotito e la Roma potentona in ghingheri. Per quanto imprevedibile nelle reazioni sentimentali (quando, dopo le celebrazioni garibaldine, la Prefettura se lo scordò a Caprera, si mise a girare per i sentieri e una volta recuperato confessò che gli sembrava «troppo bello per essere vero»), sapeva essere insieme aspro e gelido. Apparve turbato dinanzi alla salma di Pasolini, ma non gli piacque per niente che Umberto Eco, il più grande intellettuale italiano, dicesse le parolacce e dopo averlo sentito raccontare una barzelletta – ricorda un testimone – non solo non rise, ma “lo trattò come un capo del Cominform avrebbe trattato Gino Bramieri”. Di rado l’approfondimento coincide con la fantasia. Si contano davvero sulle dita di una mano le occasioni in cui qualche sua battuta polemica potrebbe farsi rientrare in forzatissima sintesi social; si ricorda quella, però vagamente manzoniana, sugli “untorelli” del Settantasette che mai avrebbero “spiantato” Bologna (ci riuscì poi Guazzaloca); quell’altra su Bettino “giocatore di poker” (ma il suo fido Tatò gliene scriveva di assai peggiori), o quell’altra ancora sul taglio craxiano della scala mobile “atto osceno in luogo pubblico”. Aveva una concezione sacrale della politica, come Segretario Generale del Pci era consapevole di incarnare la Razionalità della Storia e, se la cosa suona troppo impegnativa ad orecchie odierne, faceva di tutto per essere e apparire un uomo politico serio – come non ce ne sono più. Il punto, anche delicato, è che a 35 anni dalla sua scomparsa è proprio questa inconfondibile e a tratti arcigna serietà, in parte ereditata dal canone togliattiano e in parte sua propria, che fa riapparire Berlinguer lassù, su una nuvoletta, nel cielo della sinistra devastata, assicurandogli uno specialissimo potere salvifico. Il quale potere a sua volta ha a che fare con altre virtù di cui non resta oggi che un vago ricordo, tanto più degne ed eroiche, quanto più estinte e calpestate dai suoi stessi epigoni. La passione, la compostezza, l’autodisciplina, il senso del dovere, lo stile di vita frugale, l’umiltà del “noi” rispetto al narcisismo dell’“io”, la coerenza fino all’autolesionismo, oltre a una discrezione a tal punto leggendaria – vedi il nomignolo di “sardo muto” – da avvolgere nel mistero passaggi importanti della sua vita ( dei rapporti con Almirante s’è detto, ma solo diversi anni dopo la sua morte venne fuori il sospetto che attraverso l’incidente d’auto a Sofia i compagni bulgari avessero in realtà provato a fargli la pelle). Sembra dunque incastrato, il dilemma e il revival non solo editoriale di Berlinguer, tra orgoglio e sensi di colpa, buona fede e code di paglia, burocrazia d’anniversari e rinnegamenti. Ed è come se per cercare di afferrarne la figura in un tempo vertiginosamente diverso dal suo, gli schemi della politica non bastassero più, e fosse necessario fare ricorso a qualcosa di più alto e terribile. Tornare a quella sua morte così pubblica, sul palco di Padova, l’ictus in corso, il fazzoletto in mano, la voce a singhiozzo, il volto piegato nel dolore, e lui che voleva portare a termine il comizio: e riconoscere in quelle immagini (che i compagni riuscirono per giorni a nascondere) il segno di un vero e proprio sacrificio. Ed ecco che al di là del dolore e degli immensi funerali la morte di Berlinguer fu per molti dei suoi anche un sollievo: solo con la sua morte e dentro la sua morte, di colpo, i giovani scalpitanti sui palchi e nei garage avrebbero potuto osare ciò che lui mai avrebbe consentito, tantomeno in quel modo; e che cinque anni dopo si risolse nella demolizione della sua ragione di vita, il Pci; e dopo nella dissipazione di una grande storia collettiva; e oggi disvela un autentico cataclisma, “la fine del mondo” come la delineò nella psiche degli individui il comunista Ernesto De Martino, una fine atroce e definitiva, segnata dal peccato, senza riscatto né ricominciamento. Già alla metà degli anni ’ 90, agli albori dell’era berlusconiana, una giovane antropologa, Cristina Cenci, osservando dei manifesti sui muri di Roma, comprese che Berlinguer era stato trasformato nel “Morto vivo”, detentore e dispensatore della purezza originaria attraverso cui il gruppo – Pds o Ds o futuro Pd fa poca differenza – s’illudeva di sentirsi eterno rimanendo nella storia. C’è da dire che nel frattempo, e poi anche oltre, i suoi ex “ragazzi” lo innalzarono, lo tradirono, lo dimenticarono, lo utilizzarono, ma lo fecero anche a fettine per metterlo in vendita tanto al chilo sulle bancarelle di inutili celebrazioni e scontate rivalità, lodandone la dolcezza e il coraggio tra Bingo e Salotto Angiolillo, barche e banche, scandali, tribuna Vip, Cafonal e altre vacue occupazioni che, lui vivo, magari si sarebbero pure risparmiati. Ma la storia non si fa con i se – a patto di non alimentarla di luoghi comuni, frasi fatte, abbondante retorica zuccherosa e consolatoria: perché peggio di come è andata, non poteva andare. Così nella sinistra, o in quel poco che ne resta, è umano e perfino ragionevole rileggere Berlinguer e, chiusi i libri, alzare gli occhi al cielo. Perché abbondano i santini, ma i santi sono e servono ad altro, specie quelli delle cause perse, dei buoni rimedi, delle richieste e redenzioni impossibili. Un miracolo, Santo Enrico, o almeno una speranza in questo tempo di crudele colpa e disperato disincanto.