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 2019  giugno 15 Sabato calendario

Io e Saramago

Nove anni dopo la sua morte (18 giugno 2010) José Saramago torna con il suo ultimo libro. Arriva camminando, in copertina, dal cratere di un vulcano. È una foto in bianco e nero: il «pertinace militante comunista», lo scrittore premio Nobel, il portoghese austero è di spalle, la camicia gonfia di vento, i pantaloni che sembra di sentirne il rumore, i capelli bianchi che volano, l’orologio sottile al polso. È stata scattata a Lanzarote, l’isola senz’acqua, la più orientale delle Canarie dove si trasferì a settant’anni nella casa che decise di acquistare – in quel momento la sua prima e unica proprietà – e che si chiama così: La Casa. Il ritrovamento del manoscritto è avvenuto un anno fa proprio lì, in quello che oggi è un museo visitato soprattutto da italiani, e ha del miracoloso. Lo ha trovato Pilar del Río, la donna con cui Saramago ha vissuto gli ultimi 23 anni: il racconto della sorprendente scoperta inizia con una selva di numeri, date. A vent’anni dal Nobel, «a trentadue dal giorno in cui ci siamo conosciuti che era il 14 giugno, come adesso, ed è l’unica data che abbiamo sempre celebrato, la sola che ricordi. A dodici da quella gita al vulcano, il giorno della foto e di tutto quel vento». Che ore sono dunque a quell’orologio sottile, che giorno è? Il tempo, grande impostore. «È oggi, proprio adesso». Pilar del Río sua moglie porta appesa al collo la fede sfilata dalla mano del marito nove anni fa: è oggi in una casa di Roma appartenuta all’ambasciatore cileno amico della coppia che ha traslocato, sta traslocando ancora, torna in Cile. La casa è in disarmo, come un luogo di transito del tempo, ed è qui che i ricordi sono all’indicativo presente, è tutto sempre adesso. La foto, dice Pilar, l’ha scattata Sebastião Salgado che sarà stato il 1996, «mi pare. È venuto a Lanzarote a mostrare a José le foto che sarebbero diventate il suo libro Terra, le ha distese sul tavolo della nostra cucina e poi siccome si parlava di terra abbiamo detto andiamo nel cratere del vulcano, e siamo andati. C’era un vento terribile. Ne conservo un’altra, a casa, di quella sequenza: siamo noi due che usciamo dal cratere, io un passo avanti tengo José per mano, sembra che lo stia tirando. Lottiamo contro il vento, e vinciamo». Giugno 2019 a Roma, estate 1996 a Lanzarote, dicembre 1998 a Stoccolma. È questo il tempo de Il diario dell’anno del Nobel, libro ritrovato e che ora viene pubblicato da Feltrinelli. Com’è successo che sia comparso due decadi dopo? Dov’era? «È sempre stato lì. Solo che non lo vedevamo. L’anno scorso, a vent’anni dal Nobel, con Fernando Gomez Aguilera, la persona a cui José ha lasciato le chiavi di tutta la sua opera – l’autore della sua cronobiografia – abbiamo pensato: pubblichiamo per celebrare la ricorrenza le sue conferenze. C’era la questione di quale versione pubblicare, delle molte che sono state diffuse. Una notte ho deciso di riaccendere il suo computer. Per mia fortuna ho trovato i cavi. Li ho collegati, si è acceso. C’è sempre stata, sul desktop, la cartella Quaderni. Non l’avevo mai aperta: li ho tradotti, ho i volumi di carta, non avevo motivi di riaprire quel file. Quella notte l’ho fatto, non riesco a capire perché. Erano numerati da uno a sei. Ma i Quaderni pubblicati sono cinque. Ho immaginato che il sesto fosse un testo di note. Ho fatto clic. C’erano due contenuti. Testo, e note. Ho fatto ancora clic, sul primo. È comparso, perfetto e concluso, il testo del libro che da vent’anni stava aspettando di essere visto: il quaderno del 1998, l’anno del Nobel. Ho provato paura, emozione, gioia purissima. Ho chiamato un’amica, l’editrice messicana, le ho letto cosa stavo vedendo. Abbiamo pianto e riso insieme». Lei, che è stata anche la sua traduttrice in spagnolo, non ricordava la parte del quinto quaderno in cui l’autore annuncia “tra breve” la pubblicazione del sesto? «No non lo ricordavo. Da qualche parte nel mio corpo lo sapevo, è vero che l’ultimo suo libro annunciava il successivo in modo esplicito. “Il sesto apparirà tra breve”, diceva il testo. Dunque era già scritto. Ma poi c’è stato il Nobel, e il tempo ha cambiato il suo corso. “Tra breve” cosa significa? Due mesi, due anni, venti? Chi può dire cosa sia molto o poco, in materia di tempo?». Pilar Del Río è ancora una ragazza, ne ha l’aspetto. Viaggia con un’amica di giovinezza, come lei di Siviglia. Erano insieme, in quel viaggio a Lisbona in cui incontrarono Saramago. Pilar, giornalista, aveva 36 anni, José 63. «Due cifre capo-coda», ride. Come accadde, l’incontro? «Non avevo mai sentito parlare di lui. Lessi Memoriale del convento. Tornai dal libraio e gli dissi mi dia tutto quello che ha di questo scrittore. Aveva solo L’anno della morte di Ricardo Reis. Rimasi folgorata, decisi di andare a Lisbona. Partii con un gruppo di amiche a cui avevo regalato il libro. Come giornalista, chiesi alla casa editrice di poterlo incontrare. Non volevo intervistarlo, gli dissi al telefono, ma solo ringraziarlo. Ci vedemmo nella hall di un albergo per un caffè. Poi andammo sulla tomba di Pessoa, leggemmo sue poesie, “per essere grande devi essere intero”, il giorno dopo ci scambiammo gli indirizzi, ci salutammo. Qualche mese dopo mi scrisse». Quanti mesi dopo? «Tre, forse quattro. Mi scrisse. “Se le circostanze della sua vita lo consentono mi piacerebbe venire a trovarla”.
Non sapeva niente di me, delle “circostanze della mia vita”. La trovai una formula meravigliosa. Venne. Mandai degli amici a prenderlo, io avevo da lavorare e non potevo. Lo chiamarono al principio Don José. Poi signor José. A metà viaggio era già Joselito. Gli chiesero che intenzioni avesse con “la bambina”, cioè con me. Nessuno aveva mai chiamato Saramago “Joselito”. Era atterrato in un altro mondo. Sa, gli andalusi… Lui era un portoghese austero, fatto di ombra. Non ci siamo mai fatti regali tranne questo: lui a me la sua lingua, io a lui un continente. L’America Latina, perché la Spagna è la parte europea di quel continente». «La radicalità, la libertà. Io venivo da una famiglia OpusDei, siamo 15 fratelli, mio padre era “di Dio e di Franco”: bisognava riprodursi per la Patria. Io stessa ero teresiana. Per fortuna la mia superiora vide che non avevo vocazione. Una donna intelligente. Poi è arrivato José. Un uomo libero. Ho amato subito il suo essere fuori dalle convenzioni, il suo disprezzo per il politicamente corretto. Alla Fondazione Saramago, a Lisbona, è incisa sulla pietra una sua frase: “La sinistra non ha nessuna c... di idea, del mondo”. Era affascinato in modo particolare dalla sinistra italiana: se la invitano a cena al banchetto dei ricchi è contenta, diceva. Toc Toc, sono la Rivoluzione. Venga a cena, si accomodi. Fine della storia. L’italiano è stata la prima lingua in cui è stato tradotto, per Feltrinelli. Poi passò a Einaudi ma quando Berlusconi comprò la casa editrice volle andarsene e tornò all’origine. Una faccenda che ha avuto qualche eco». con la prefazione di Umberto Eco. Parlava della “Cosa Berlusconi’. La Cosa. Ho visto che anche nel film di Sorrentino su Berlusconi l’attrice che interpreta sua moglie Veronica lo legge. Gli dice: questo scrittore non parla bene di te». «Diceva. Il problema non è Berlusconi ma quelli che vogliono essere come lui. Non sono i leader, ma i cittadini – la questione. Dalla casa editrice di Torino vennero dall’Italia nella nostra casa di Lanzarote, a chiedergli di soprassedere alla scelta. Non ci fu verso. Era molto legato a Inge, del resto». Nel testo ritrovato ci sono pagine potentissime su cosa significhi essere “scrittore comunista”: uno “stato d’animo”, scrive Saramago. Essere comunisti è tutto qui, uno stato d’animo. E c’è un articolo, “Rallegrati, sinistra”, sul destino che ci attende. Pagine che sembrano scritte la settimana scorsa. Pilar, lei non si chiede mai leggendo i giornali cosa penserebbe José della politica di oggi? «Mai. È già scritto tutto in quello che ha scritto. Se guardo alla corruzione politica rileggo Se voglio capire le primavere erabe e il loro epilogo riprendo Nell’ultimo anniversario della nascita sono comparse scritte naziste sulla sua lapide. Le abbiamo denunciate alle autorità. La sua scrittura, il suo pensiero, per il fascismo sono un fastidio adesso. La questione è che José parlava con decenni di anticipo sul presente. Diceva, nel 2005, in una conferenza in Costa Rica: “I tre fattori che ci definiscono sono paura, indifferenza, rassegnazione”. Non è così stamattina, proprio Lei ha detto una volta che le vostre uniche discussioni sono state sulle parole, sulla lingua. «È così. Si metteva alle mie spalle mentre lo traducevo, mi massaggiava la schiena e mi diceva: perché non usi questa parola? Era tremendo. Non esiste, gli rispondevo: in spagnolo questa parola non esiste. E lui: allo spagnolo mancano le parole. Una volta ho preso i due dizionari, portoghese e spagnolo. Li ho confrontati a peso. Guarda, gli ho detto: quello spagnolo pesa di più. Ci sono più parole». Di cosa ci parla, questo Diario dell’anno del Nobel, oltre vent’anni dopo? «Di quello che resta da fare a ciascuno di noi, perché ciascuno di noi – dice José – è una superpotenza. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo, per esempio, ha bisogno di una speculare dichiarazione dei doveri. Li abbiamo scritti, i doveri: un lavoro della Fondazione Saramago con l’Università del Messico. Doveri, insieme ai diritti. È l’ora di chiedersi cosa possiamo e dobbiamo fare, ognuno nella sua vita. Leggere, conoscere, studiare, fare. C’è così tanta vita in questo libro di José, così tanti fili da tirare e da tessere». Tanti fili. Recensioni (il confronto fra Pessoa e Cervantes, tra tutte), interviste (fantastica quella che concesse a note familiari, il giorno in cui comprava calzini al Corte Inglés e fu “scoperto”, la prolusione per il Nobel che inizia con la descrizione dei due nonni analfabeti – Saramago non ebbe un libro fino a 19 anni – e che racconta di sé e del mondo attraverso i personaggi dei suoi libri. Le lettere di chi gli scriveva, moltissime, e a cui rispondeva, sempre. La donna che grazie a ha scoperto di avere un fratello, per esempio. Lo ha trovato inseguendo una frase del libro, un nome che va a capo in un documento dell’anagrafe, un pensiero: lo ha trovato da un’altra parte del mondo, suo fratello in carne ed ossa. Perché leggere, si sa, cambia la vita.