La Lettura, 9 giugno 2019
Recensione del libro "Un mare viola scuro" di Ayanta Barilli
«Riempire gli spazi vuoti delle proprie pareti», per dirla con le parole di Ayanta Barilli, sembra essere un impulso che, prima o poi, coglie quasi tutti nella vita. E non necessariamente per frenesie araldiche. Non c’è come un segreto di famiglia – e, forse, non c’è famiglia senza un segreto – per accendere la curiosità di una scrittrice che, alla morte dell’adorata nonna, scopre di avere «un albero genealogico senza rami, senza nomi e senza date, perché Angela li aveva portati con sé nella tomba».
Con Un mare viola scuro (DeA Planeta) la giornalista radiofonica italo-spagnola esordisce come romanziera risalendo per tre generazioni, in linea femminile, il solco di una memoria semisepolta, tra la fine dell’Ottocento e il 2017. Ricompone l’album dei fatti vissuti, negati, nascosti, rimossi da madre, nonna e bisnonna, tutte italiane, tutte malmaritate: Elvira, Angela e Caterina. Caterina, la mamma, è morta quando Ayanta aveva appena una decina d’anni. Elvira è un’ombra quasi inafferrabile. Nonna Angela, invece, è il bandolo di una matassa che conduce la nipote nei luoghi del ramo italiano della sua famiglia: Parma, Padova, Roma, fino all’ex manicomio di Colorno e a Tellaro, in Liguria. Ogni tappa del viaggio, un ricordo. Ogni fermata, una sorpresa. «Ma è tutto vero?», si è sentita invariabilmente chiedere l’autrice in Spagna, dove Un mar violeta oscuro è arrivato finalista al Premio Planeta: «Non lo so. È la mia verità, quello che io ho capito. I luoghi e i personaggi sono veri – risponde – ma, per il resto, è una mia ricostruzione».
La domanda successiva se la pone da sola, a pagina 71 del libro: «Ma a che scopo rituffarsi nei pozzi profondi della memoria? Provare a ricostruire attraverso supposizioni, le vite di chi mi ha preceduto? A cosa serve rivangare e portare alla luce quanto è andato perduto?». Si risponde senza incertezze: «A conoscere me stessa. Perché non posso permettere che mi raggiunga la morte senza prima sapere chi sono. Voglio spiegare il senso delle mie azioni, affinché i miei figli e nipoti ereditino un passato che gli appartiene. Ma, ancora di più, per trovare io stessa consolazione nell’immortalità di una storia che rivive solo se la racconti».
Per i lettori spagnoli quella storia ha un risvolto di indiscreta attualità: Ayanta è figlia di un personaggio pubblico, Fernando Sánchez Dragó, notissimo giornalista, saggista e polemista, che si separò da Caterina Barilli, professoressa di Storia e Filosofia, ancora prima che Ayanta nascesse a Roma, dove la madre era tornata a vivere. Unico frutto di una coppia tanto appassionata quanto fragile, al tramonto degli euforici anni Sessanta, la futura scrittrice può aver giudicato ma non condannato, le loro intemperanze. Dentro di lei è cresciuta piuttosto la fame di informazioni, di dettagli da associare a storie, a nomi veri e improbabili sentiti in casa.
Come quello del bisnonno Belzebù. Chiaro che non doveva essere stato battezzato così. Ma è con l’identità forse più ironica di Lucifero che la sua figura era stata tramandata in famiglia. Alla morte di nonna Angela di fronte all’impiegato delle pompe funebri che le domanda i nomi dei genitori della defunta per riempire il suo modulo, la nipote si rende conto di ignorare come si chiamasse davvero il padre. Belzebù rendeva meglio, molto meglio, il ruolo diabolico che Evaristo Spagnoli aveva avuto nell’infelice sorte della bisnonna Elvira. Se voleva saperne di più, si trattava, per cominciare, di aprire i cassetti di casa: «Ho trovato carte, diari, lettere, foto, documenti e tonnellate di cartoline. Allora – spiega il making of del suo romanzo Ayanta – le cartoline erano i tweet di oggi. Una breve frase riassumeva un’intera situazione. Per esempio: c’è una cartolina datata 1972 che Caterina inviò da Madrid ad Angela, con scritto semplicemente: “Qui sono tutti in prigione”. La Spagna era ancora sotto la dittatura franchista e in cinque parole mia madre lo aveva detto».
Non sarà facile per i narratori dei prossimi decenni reperire altrettanto materiale nelle cantine o nelle soffitte, imprevedibili ingredienti per cucinare le loro storie: «Le foto di Instagram, le conversazioni via Facebook, le notizie su Twitter, se li porta via il vento. Non sono fatti per restare. Ma il bisogno di riscoprire cose del passato – avverte la scrittrice – è sempre lì. Sarà perché lavoro alla radio, ma io consiglio di intervistare e registrare gli anziani della famiglia per non perdere i loro ricordi. La voce è talmente evocativa: è come la musica. Sarà emozionante per i nipoti ascoltarla un giorno».
A volte si può apprendere anche ciò che si sarebbe preferito ignorare. Fa parte degli imprevisti di un’indagine. Si possono scoprire cattiverie e sotterfugi, bugie e tradimenti. Ma non sono gli scheletri a fermare Ayanta. Tantomeno la paura, o il consiglio un po’ mafioso di uno zio di Parma: «Lascia perdere».
L’istinto, più che una traccia concreta, la guida a Colorno, fino all’ingresso del vecchio manicomio, chiuso dal 1978. Tra gli scritti lasciati da Angela c’era un racconto che passava proprio da una clinica per malati di mente. Per fortuna della discendente scrittrice, il cognome Barilli, che contraddistingue una stirpe di attori e artisti parmensi, apre molte porte, incluso il portone del mefitico «castello» in cui Evaristo, o meglio Belzebù, aveva fatto rinchiudere la sua sposa. Che magari non era pazza ma lì dentro lo diventò. «I manicomi – spiega Ayanta – mi hanno ossessionata. Ho letto e studiato tanto in proposito. Non erano solo i matti a essere rinchiusi: c’erano donne alcolizzate, depresse, omosessuali o che rifiutavano di sposarsi. Erano contenitori di figli illegittimi o bambini con sindrome di Down. Bastava uscire un po’ dalle regole di comportamento per essere ricoverati. All’epoca forse ci sarei finita anch’io».
La vita dell’autrice s’intreccia, pagina dopo pagina, con quelle delle sue protagoniste, nonché progenitrici, dimostrando che anche i destini sono consanguinei: «Volevo comunicare con queste mie donne morte, capire le decisioni che avevano preso e perché ripetiamo spesso gli schemi famigliari, quasi fossero malattie ereditarie, come il tumore al seno, o gli stessi errori nelle scelte sentimentali».
I luoghi sono comprimari. Ma il più speciale è forse quello che dà il titolo al libro: il mare viola scuro di Tellaro, il paese ligure delle vacanze estive. «Il paese dei balocchi – aggiunge Ayanta – rimasto fermo nel tempo. Lì non funzionano i cellulari. Non c’è spiaggia, soltanto roccia nera, e l’acqua è profonda e scura. Quando è mosso, il mare è uno spettacolo: i suoi spruzzi entrano fin nel campanile della chiesa. Faceva da sfondo ai racconti famigliari della nonna. Storie di realismo non magico, ma mitico». Per esempio? «Mi diceva: non fare il bagno, perché oggi c’è il diavolo in carrozza. E io mi sedevo e aspettavo di vedere apparire Satana su un carro trainato da due grandi tonni».