Il Messaggero, 14 giugno 2019
Intervista a Dario Nardella: «La riforma dei musei un atto anti patriottico»
Dario Nardella, sindaco di Firenze, è nato a Torre del Greco (Campania).
L’autonomia dei musei, compresa la loro apertura al rapporto con i privati, è stato il cuore della riforma Franceschini. Ora invece, da più parti si paventa l’arrivo della «controriforma Bonisoli» che punta a ridurre o a eliminare il modello di gestione e di fruizione culturale in vigore negli ultimi anni. Sindaco Nardella, condivide le preoccupazioni?
«Le condivido totalmente. E sono sbigottito. Anche per il metodo con cui si sta preparando questa riforma che va a colpire l’Italia, cioè la nostra patria, nel suo motore e nel suo ubi consistam: quello dei musei e della cultura. Tre giorni fa è venuto a Firenze il ministro Bonisoli, e non ha fatto neppure un cenno a questo suo progetto che azzera il sistema, moderno e in linea con gli altri grandi Paesi, dei musei statali autonomi».
Lei è geloso della sua Firenze?
«È l’Italia nella sua interezza che viene ad essere colpita da questo disegno che ci riporta indietro di 40 anni. Verrebbe meno da subito, e poi mi aspetto altri disastri, l’autonomia delle Gallerie dell’Accademia di Firenze, ma anche del Parco archeologico dell’Appia antica e del museo etrusco di Villa Giulia a Roma, e del parco del castello di Miramare a Trieste. Tutto viene ridato in mano alla burocrazia ministeriale».
Ma non è giusto che lo Stato controlli di più?
«Non è giusto scimmiottare, anche nelle diciture l’Unione Sovietica».
Suvvia..., sta dicendo che Bonisoli è come Zdanov?
«La riforma prevederebbe una fantomatica Direzione Generale dei Contratti, un organismo da far impallidire il soviet supremo o sembra preso di peso dalle satire di Gogol contro l’iper-burocrazia zarista. Apro un bookshop agli Uffizi ma non lo posso fare se la super-direzione superiore non mi dà il permesso? Una follia pensare a un unico centro che gestisce le gare per i servizi dei singoli musei che in questi anni con l’autonomia hanno fatto incassi e cultura. Poi ci sono decisioni bislacche. Come quella di affidare alla direzione centrale che si occupa della arti contemporanee anche il tema della riqualificazione urbana, che è tipica materia dei sindaci».
Perché la «controriforma»?
«Non lo so. Non ne vedo le ragioni. A parte una: quella di voler azzerare la riforma Franceschini per il solo fatto che è stata varata da un governo diverso da questo».
Chi rischia di pagare di più questo cambiamento?
«Soprattutto due città, Roma e Firenze. Sono quelle con il maggior numero di musei statali. Venezia non ne ha così tanti e neppure Milano o Napoli. Le faccio l’esempio dell’archeologia. L’intento, oltre quello di centralizzare i luoghi archeologici a dispetto delle loro specificità, è anche quello di renderli – con un’ottica anti-storica – luoghi di conservazione e non di fruizione pubblica. Vedo insomma anti-patriottismo e spirito totalitario nei progetti Bonisoli. Portati avanti di nascosto e senza alcun confronto con gli enti locali. Questa riforma l’hanno fatta quattro amici al bar. E mi chiedo: che fine hanno fatto gli intellettuali come Settis o Montanari, che al tempo del ministero Bray avevano sostenuto l’autonomia dei musei?».
Magari tacciano perché – esempio – Montanari il duro e puro è stato cooptato da Bonisoli come presidente del comitato tecnico e scientifico delle Belle arti oltre ad essere membro del comitato scientifico degli Uffizi?
«Questo non lo so. Però mi stupisce il generale silenzio degli intellettuali di fronte a una riforma che mortifica il ruolo dell’Italia come guida mondiale nel campo dei beni culturali».
Non è che c’è un’ideologia anti-mercato e anti-privati dietro il fastidio verso la gestione autonoma dei musei?
«Io non credo che la cultura debba essere mercificata. Ma tenere fuori la parte sana delle imprese, e gli enti locali, dal governo del patrimonio culturale è un errore clamoroso. E la beffa è che, con questi chiari di luna, al ministro Bonisoli non daranno neanche un euro in più nella prossima legge di stabilità».
Ma davanti a tutto ciò il Pd che fine ha fatto?
«Dovrebbe farsi sentire di più e lanciare una campagna in difesa della cultura italiana. Quanto a noi, da Firenze a Roma, da Palermo a Napoli, Milano e le altre città ci dobbiamo organizzare. Serve un patto per la difesa del patrimonio culturale e anche per la tutela dei centri storici rispetto al turismo di massa».