la Repubblica, 14 giugno 2019
Una giornata con Andrea Vitali
IBELLANO (LECCO) Il dottore ha qualcosa che s’increspa nello sguardo, come il lago quest’oggi mentre il vento lo strapazza. Tre donne avanzano controvento e stringono foulard. Non ci sono il prevosto, il maresciallo, il podestà, chissà in quale nascondiglio si sono cacciate Evangelia, Mercede, Vanesio e Gerbera. Quei nomi assurdi, perché tutto lo è. Il buon mondo di provincia è come scomparso nella nebbia a pelo d’acqua, nell’inconcepibile inverno che dura nell’aria. Qui, il dottor Andrea Vitali lo salutano come se davvero fosse sempre il medico condotto del paese, il destinatario di segreti e speranze. Lo ha fatto per venticinque anni e poi non più. Ma non è stato, come si crede, per via del successo letterario. «No, ero sfinito dal dolore degli altri, non ne potevo più. Dissi basta dopo che mi morì tra le braccia un uomo giovane, fulminato da un cancro intestinale, e nell’altra stanza c’era la sua bambina piccola». Si fanno cupi gli occhi del dottore. «Perché poi non ci dormi la notte, hai sempre il dubbio di avere sbagliato tu».
Ci sediamo al bar dell’imbarcadero, l’acqua là fuori è violacea. Un tizio picchia contro i vetri e saluta con la mano. «È innocuo, un mezzo matto». Andrea Vitali tormenta il cucchiaino del caffè, poi lo appoggia sul piattino che tintinna. Il dolore. «Avevo questo libro che premeva dentro da cinque anni come un sogno di inquietudine, o forse un incubo. È la storia di un viaggio senza risposta, un’allucinazione». Così è nato Documenti, prego (Einaudi Stile Libero). «I lettori mi chiedono dove sono finito e io rispondo: dove sono sempre stato, solo che nessuno lo sapeva». Le dita s’infilano tra i capelli, lo scrittore è un uomo che non inventa niente, è soltanto uno che guarda meglio e sente di più. «Mai avuto bisogno di creare trame da zero. Mi basta badare alla potenzialità narrativa di una storia, di un racconto ascoltato anche molti anni prima. Scrivere romanzi è come andare a funghi, quando ne trovi uno poi lo cucini. A volte basta proprio poco, la mezza frase di una vecchia zia, l’abbaiare di un cane in un borgo disabitato ».
Eppure, in apparenza non è cambiato niente. Le case di Bellano ancora sembrano scivolare verso il monumento a Tommaso Grossi, mentre le donne sciamano da messa. Il piccolo mondo antico che i lettori amano, qualcosa tra Guareschi e Piero Chiara, ma poi ti distrai ed ecco Kafka, ecco Dino Buzzati. «Tutto cominciò una notte, durante una sosta all’autogrill dalle parti di Lodi. C’erano mastodontici tir immobili nel buio, io m’immaginai di essere fermato per un controllo a sorpresa, è così che trovai il mio fungo». All’improvviso arriva Walter e saluta, è un vecchio compagno di scuola. I sorrisi quieti nel tepore del bar. «Abbiamo i nostri fantasmi, io li ho solo distratti per tanto tempo e adesso sono venuti a chiedere il conto. Dài, andiamo a comprare il vino per stasera». Si cammina lenti nella pioggia, sono gocce piccole, affilatissime.
«Io ero il primo di sei figli, la mia infanzia è trascorsa in mezzo a fratelli, sorelle, zii, zie e non poche zitelle. Le donne sanno raccontare come nessuno e i bambini zitti, ma in ascolto. Io non parlavo mai, però non mi sfuggiva niente. C’era questa dimensione tra l’epico e il grottesco e ogni occasione era buona, funerali compresi. C’era lo zio cacciaballe che parlava dell’Inghilterra, Emilio detto Esilio perché aveva viaggiato, portava baffetti curatissimi. La linea materna della mia famiglia era la più comica, più seria quella di papà. Ma fu proprio lui, raccontando una vecchia storia di guerra e case di tolleranza, a darmi l’idea del primo romanzo, Il procuratore, un magnaccia, eh, mica un magistrato. Raffaele Crovi mi convinse a fare dell’aneddoto familiare un vero libro, glielo raccontai a Milano mentre sotto gli uffici della casa editrice Camunia passava il Giro d’Italia. Era, direi, il 1988. Da allora ho sempre tenuto il naso dritto per catturare le mie storie, che sono state tante». Decine e decine più una, l’ultima, quella che graffia come un gessetto sulla lavagna. Quasi un debutto, in fondo, dopo milioni di copie vendute. «Ma voglio tranquillizzare il pubblico, ho appena finito l’ultimo maresciallo, Andrea Vitali non è sparito nel nulla, aveva solo fatto quella deviazione notturna all’autogrill». Ce ne saranno altre, almeno una certamente. «Si intitoleràIl maiale.
Davvero lo vidi mentre salivo sullo Stelvio, gli si era incastrato il muso nel secchio mentre mangiava, una visione sinistra. Su di me hanno agito la strada, l’immagine della bestia e la suggestione di un ispettore di città che arriva in una landa ai confini dell’impero per indagare su un delitto che nessuno vuole spiegare. C’è questa clinica in cui si trapiantano le cellule cerebrali del nucleo soprachiasmatico, sono cellule molto particolari, poi le spiego». Il vinaio porge due bottiglie di rosso, il dottore dice di segnarle sul conto.
«Sto rileggendo Delitto e castigo, lì c’è proprio tutto. Però il mio preferito è Euripide, Ecuba è insuperabile. Abbiamo scritto miliardi di parole in migliaia di anni per provare a riscrivere Euripide molto peggio». I libri, che posto indispensabile e strano. «Spesi tre quarti del primo stipendio di medico, 600 mila lire, per un’offerta Einaudi: cento volumi a scelta. Se non leggessimo, la nostra vita sarebbe un male incurabile, inconsolabile». La sera cala svelta, sul lago. C’è tempo per l’ultimo caffè e per quella faccenda delle cellule. «Il soprachiasmatico, già. Quando si muore, i suoi tessuti vivono ancora un poco, è come se restassero in attesa di una ripresa, dell’impossibile guizzo, poi si arrendono anche loro». La morte oltre la morte, ma non ditelo al prevosto se no si spaventa».