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 2019  giugno 14 Venerdì calendario

Il problema del calciatore Ali Mohamed

Ali Mohamed è considerato il miglior giocatore della Premier League israeliana. Nato in Niger 23 anni fa, ha appena giocato un campionato straordinario vestendo la maglia del Maccabi Netanya. È stato comprato qualche giorno fa dal più blasonato club israeliano – il Beitar Jerusalem – per 2,5 milioni di dollari, una cifra importante per il calcio israeliano. Nonostante le sue prodezze e la possibilità di diventare la stella della squadra, nemmeno 24 ore dopo l’annuncio, il proprietario del club Moshe Hogeg ha iniziato a ricevere minacce dagli ultrà della curva per aver comprato un giocatore con un nome dal suono musulmano. Ali ha subito chiarito attraverso il sito ufficiale della squadra e il suo profilo Facebook di essere di religione cristiana e un devoto praticante, ma questo non è bastato a un vasto settore della tifoseria, quello più famigerato e minaccioso che si ritrova sotto il nome de “La Familia”.
Un gruppo dell’ultradestra, razzista e suprematista ebraico nato nel 2005 – 36.000 i suoi follower sui social media – con ramificazioni anche nella malavita e nel traffico di stupefacenti. Secondo loro Ali Mohamed, anche se cristiano porta un nome musulmano che non può essere pronunciato nel Teddy Kollek Stadium di Gerusalemme, il “loro” stadio che è soprannominato “l’Inferno” per il clima ostile, violento e razzista nei confronti delle squadre ospiti.
Il nuovo presidente della squadra – il terzo in 6 anni – dopo aver ricevuto le minacce ha detto di non essere preoccupato. “Il 99% delle reazioni sono di sostegno e incoraggianti perché abbiamo preso un grande giocatore”, ha spiegatoHogeg “ci sono state alcune risposte aggressive, se queste proseguiranno partiranno delle denunce”. Intanto la sicurezza privata intorno agli impianti e ai giocatori del Beitar è stata rafforzata.
Il club che affonda le sue radici nella destra nazionalista è l’unico a non aver mai fatto indossare la sua maglia a righe gialle e nere a un giocatore arabo, sebbene siano decine quelli che giocano in Prima divisione. Molta gente importante fra i suoi supporter, come l’ex ministra della Cultura Miri Regev, l’ex premier Ehud Olmert o Benjamin Netanyahu, l’attuale capo dello Stato Reuven Rivlin ne è stato addirittura presidente.
Il Beitar nacque in circostanze particolari e tuttora è un club unico nel suo genere, venne fondato nel 1936 come squadra di calcio del movimento giovanile del Partito revisionista sionista. Il revisionismo è una particolare corrente del sionismo secondo la quale l’obiettivo a lungo termine di Israele è ottenere la sovranità su tutta “Eretz Yisrael”, cioè la terra che secondo gli ebrei Dio ha donato loro migliaia di anni fa, dal fiume Giordano al Mediterraneo. Il Likud, che governa Israele è ispirato a queste teorie, così come Israel Beitenu, il partito della destra nazionalista guidato da Avigdor Lieberman, ex ministro degli Esteri ed ex vice primo ministro d’Israele.
Ma da una decina di anni sono gli ultrà de La Familia a essere diventati il tratto distintivo di una tifoseria razzista e spesso violenta. Lo stretto legame tra il club e la politica – specie con il Likud e i nazionalisti di Avigdor Lieberman – è la base su cui si fondano le accuse rivolte al governo dalle altre società di calcio e dai partiti, secondo i quali si cerca sempre di sminuire gli episodi riguardanti La Familia e tollerare il comportamento razzista, anti-arabo e anti-musulmano dei suoi membri.
Nel 2103 per protesta contro l’allora presidente Arkady Gaydamak – colpevole di aver comprato due talentosi giocatori ceceni di religione musulmana – impianti e uffici del club vennero bruciati. I possibili autori dell’incendio non vennero identificati, il presidente vendette la squadra. Forever Pure, il film documentario della regista Maya Zinshtein sulla squadra e il suo gruppo di fan estremisti de La Familia, che nel 2018 ha vinto un Emmy Award, racconta proprio quei giorni.
Nel 2016 dopo l’inchiesta dello Shin Bet – il servizio segreto interno di Israele che infiltrò diversi suoi uomini fra gli ultrà – 56 membri de La Familia vennero arrestati per reati che andavano dal sabotaggio al possesso di armi, al traffico di droga. I suoi affiliati sono spesso protagonisti il venerdì sera (inizio dello Shabbat e giorno sacro per gli arabi, ndr) di raid nel centro di Gerusalemme, dove provocano gli avventori arabi di bar e ristoranti, e minacciano i gestori di esercizi commerciali ebrei che impiegano personale arabo.
Hogeg ribadisce che “la religione, come nel passato, non è più un criterio per gli acquisti dei calciatori e non lascerà che una minoranza possa offuscare la reputazione del club”.
Dall’altroieri però sull’account de La Familia è comparsa questa dichiarazione. “Dopo richieste e verifiche sull’identità del giocatore Ali annunciamo che non c’è alcun problema dal momento che è un devoto cristiano. Ma abbiamo un problema con il suo nome, che non può essere pronunciato nel nostro stadio né può essere stampato”. Invito e minaccia son chiari: Ali Mohamed scelga un nickname, un soprannome, un alias, ciò che vuole. Perché nessun Mohamed potrà mai indossare la maglia del Beitar o la guerra del football può ricominciare.