il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2019
Ritratto al veleno di Luca Lotti
Passo lento, capigliatura elettrica. Ogni mattina il misterioso Luca Lotti porta a spasso i pensieri del suo capo e qualche volta i suoi. Dei primi sappiamo tutto, dei secondi quasi nulla. Salvo che devono avere la forma degli algoritmi coi quali ha accudito la maestosa parabola del capo, da Rignano fino a Palazzo Chigi, poi la caduta. Il tutto in una dozzina d’anni di carriera. Prima capo della sua segreteria a Firenze, ai tempi del Giglio nascente. Poi il doppio assalto al partito democratico con gli arredi ben spesi della Leopolda. La conquista del governo. La delega alla organizzazione del partito e quella ai Servizi segreti. Il cacciavite e le pinze per lavorare alle grandi nomine, Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Cassa Depositi e Prestiti: la ciccia del Paese. Poi la luminosa idea degli ottanta euro da organizzare. La guerra di logoramento con D’Alema, Bersani e i detestati comunisti, fino alla scissione. La pace con Denis Verdini, volto nobile del centrismo che lui chiama amichevolmente “il mostro”, fino al celebre Patto del Nazareno, l’inizio della fine del suo capo. Che fu spettacolare quanto un fuoco d’artificio.
Un milioncino di chilometri esistenziali, percorsi senza mai aprire bocca in pubblico o quasi, persino durante il suo anno e mezzo al dicastero dello Sport, 2016-2018, passato a braccetto del suo provvisorio amico Giovanni Malagò, presidente del Coni, a inaugurare federazioni, palestre e a progettare candidature olimpiche rimaste sulla carta.
Quando deroga dal silenzio e parla, non fa mai bella figura. “Io i giornali non li leggo” ebbe a dire una volta entrando a Montecitorio. Proprio mentre il suo capo lo aveva promosso sottosegretario con la delega all’Editoria, anni 2014-2016, cioè titolare del destino dei giornali che campano con i contributi pubblici oltre che con quello dei lettori.
Oggi che a chiedergli di parlare sono le procure – quella di Roma per il caso Consip, quella di Perugia per il caso Palamara – dovrà per forza contravvenire alla sua natura, pensare al suo futuro, e di sicuro al suo passato.
Radici nella remota Montelupo Fiorentino, Luca Lotti nasce nel 1982 a Empoli, famiglia cattolica, padre funzionario di banca, madre casalinga, adolescenza senza storia, l’oratorio, la chiesa, il liceo, il calcio giocato in Eccellenza, la laurea in Scienza dell’amministrazione.
Era l’anno 2005 quando avvenne il fatale incontro proprio davanti alle pregiate ceramiche di Montelupo allestite per la mostra-mercato. Matteo Renzi, 30 anni, presidente della Provincia è l’ospite d’onore. Luca, 23 anni, è il più giovane consigliere comunale in quota Margherita. Uno viene dai Boy Scout, l’altro dall’Azione cattolica. Si intendono al volo. Parlano di sport in generale e di calcio in particolare, anche perché Luca, in un’altra sua memorabile dichiarazione dirà: “A quei tempi di politica non capivo nulla, ma proprio nulla”. Perfetto. E infatti a quel tempo allenava una squadra di bambini, tifava Milan, andava al bar con i suoi due amici di paese, il Nocio e il Ciancio che lo chiamavano il Lampadina.
Ma siccome era sveglio e forse persino allegro, Matteo non lo archivia tra gli sfaccendati di paese, lo ingaggia nel suo staff, cambiandogli la vita destinata al posto fisso di una banca. Subito si trasferisce a Firenze. Poi sei mesi a Bruxelles a studiare come è fatto il mondo e come girano le poltrone degli euroburocrati. Per poi applicarsi a quelle in miniatura di Palazzo Vecchio, con Matteo in corsa per diventare sindaco, e la coda del Giglio magico che si addensa, ingaggiando, dopo di lui, l’ex berlusconiano Marco Carrai, eclettico imprenditore che si occupa di tutto, dai materiali edili al software. E poi la sua personale nemica-amica Maria Elena Boschi, che viene dal presepe vivente di Laterina, provincia di Arezzo, porta in dote sorrisi luminosi e nuvole nere.
Tutti e tre, curiosamente, hanno a che fare con le banche del territorio. Carrai è dentro Monte dei Paschi di Siena e la Cassa di Risparmio di Firenze. Maria Elena ha il babbo sistemato in Banca Etruria. Mentre quello di Luca fa il funzionario nel Credito Cooperativo di Pontassieve. Nessuna delle tre porterà bene al Giglio. Di Monte Paschi e Banca Etruria è inutile parlare, perché da tempo ne parlano i tribunali.
In quanto al Credito di Pontassieve, passa i suoi guai giudiziari quando nel 2009 concede un prestito di 496 mila euro più spicci proprio al babbo di Matteo, il celebre Tiziano Renzi, che prima di dichiarare fallimento, gira una parte dell’azienda di nome Chill alla moglie, che sposta la sede legale a Genova, in società con il fratello del marito di una delle due figlie, cioè il fratello del genero. Se non avete capito il labirinto, pazienza. Ci hanno pensato i giudici di Genova a sbrogliare la matassa quando la società è andata in malora, indagando Tiziano per bancarotta fraudolenta. Indagini lunghe, qualche inciampo, poi il lieto fine dell’archivio. Meglio così.
Lotti figlio ne esce indignato per le ingiuste accuse al padre. Deve essere da allora che ha deciso di avere ravvicinati rapporti con chi indaga e fa processi, in modo da prevenire le cattive sorprese anziché curarle. Così tutte le parole che non pronuncia in pubblico, se le spende in privato a ricamare rapporti personali, la cosa che gli riesce meglio, sebbene senza il borotalco del suo amico e maestro in cerimonie Gianni Letta.
Renzi lo incorona sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Da lì tiene d’occhio i Servizi, non si sa mai, e accarezza gli editori che ricambiano. Seleziona i questuanti, tratta sui sindaci e i governatori. Nuota dentro l’assemblea nazionale del pd. E come ai vecchi tempi, allena la segreteria del partito a immagine del capo.
A parte l’anticomunismo, un debole per la Terza via e lo Sport come ristoro sociale, non si conoscono opinioni profonde a suo carico. In compenso fa vita lineare: si sposa, ha due figli, non spegne mai il cellulare.
Peccato resti impigliato nell’affare Consip, un appalto da 2,7 miliardi che fa gola a un sacco di grandi imprenditori, come Alfredo Romeo, e a piccolissimi come un tale Carlo Russo di Scandicci e al suo amico Tiziano Renzi, ancora lui, l’infaticabile pensionato. Secondo i magistrati Luca Lotti è una delle gole profonde che svelano l’inchiesta in corso agli indagati. Lui nega e si arrabbia. Come negano gli altri sotto inchiesta per la fuga di notizie, in primis il comandante generale Tullio Del Sette, numero uno dell’Arma e il generale Saltalamacchia, capo della Legione Toscana.
Ma siccome i guai funzionano come le ciliegie, quel che accade nell’inchiesta Consip – cominciata nell’estate del 2016 – si tira dietro cattive conseguenze nel 2019, cioè oggi, quando si scopre che Lotti va a cena con Luca Palamara, ex presidente della Associazione nazionale magistrati, e altri togati, a discutere le imminenti nomine della Procura di Roma e di Perugia, proprio quelle che indagano su Consip e su tutta l’allegra compagnia. Un capolavoro di intrighi che fa saltare per aria il Consiglio superiore della magistratura oltre che il sopracciglio del presidente Mattarella.
Per la terza volta Lotti parla e fa danno: “Adesso uscire con me a cena è diventato un reato?”. In quanto ai giri di valzer tra politici e magistrati ci pensa Renzi a seppellire tutto come “festival dell’ipocrisia”. Non perché non sia accaduto niente, ma perché è accaduto sempre, “e il metodo non l’ha inventato Lotti”.
Ai tempi d’oro, che poi erano le ricorrenti stagioni delle nomine e delle liste di candidati, Luca si vantava di collezionare “telefonate perse”, fino a 216 in un giorno, per dire quanto fosse affollata la sua vita. E su quante superfici luminose la giocava. Oggi fa buio presto: troppi tribunali intorno, troppi temporali in vista.