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 2019  giugno 14 Venerdì calendario

Tra le gang criminali di Los Angeles

«Poche domande, non fissate nessuno, non siate stupidi, statemi vicino e porterete il sedere a casa». Alfredo Lomas è una persona diretta. Quindici anni nella banda criminale dei Crips, l’hanno educato allo street wise, la saggezza della strada, dove uno sguardo di troppo può ucciderti. A cinquantacinque anni, dopo una decina passati in galera, ricorda con un sorriso amaro il teppista che era. E si è inventato un tour di dodici tappe nei peggiori quartieri della città californiana. A Los Angeles sono attive quaranta gang, nate dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e moltiplicatesi negli anni Ottanta con l’immigrazione di messicani e asiatici. Erano gli anni del boom economico, della cocaina di Pablo Escobar. Le due gang più temute e violente sono i Crips e i Bloods che contano su un totale di 22mila membri. Sono nate negli anni Sessanta, quando l’America era scossa da tensioni razziali e rivolte. Alfredo è di Compton, il ghetto dei ghetti, quartiere periferico turbolento, un oceano di cemento grande come Milano «in cui ogni giorno è buono per prenderti una pallottola in fronte», avverte.
«All aboard!» e si lascia Downtown, lungo Spring street, attraversando China Town e Little Tokyo. Una mappa mostra i quartieri di competenza delle gang, le strade col maggior numero d’omicidi, rivolte e scontri con la polizia dal 1940 in poi. Prima fermata è la L.A. County Jail, il penitenziario più grande al mondo: ventimila detenuti, a cinque minuti di strada, Alamada, sorge il Metropolitan Detention Center, il penitenziario di Al Capone. «Nell’area ci sono più carceri che scuole», ridacchia Lomas. Passato il distretto di River Bed, entriamo nell’area controllata dalla gang nera per eccellenza: i Bloods, il cui colore identificativo è il rosso. Una loro gang alleata a Florence avenue il 17 maggio 1974, si alleò con il Symbionese Liberation Army, un’organizzazione militare ispirata ai Tupamaros uruguayani e amica delle Black Panther. Presero di mira alcuni agenti che stavano arrestando un uomo di colore. Fu una pioggia di piombo, arrivarono dieci volanti, i morti furono sedici, tra cui sei poliziotti. Costeggiamo South Gate, sotto il controllo dei Florencia 13, la gang ispanica più antica: a Zoot Suit Point nel 1943 un gruppo di militari riservisti si scontrò con loro e una scazzottata tra marmittoni divenne una guerriglia di sei giorni, dodici morti, duecento feriti e sessanta arresti. 
E se Cristo si è fermato a Eboli, la violenza urbana e moderna è nata a Watts. All’interno delle piccole villette ci sono più armi di una caserma. I cartelli avvertono: «I vicini sono armati». Nel 1965 il quartiere ospitava rabbia e povertà. Erano gli anni di Martin Luther King Jr. e dei diritti civili negati ai neri. Bastava una scintilla d’odio ed esplodeva il quartiere. L’11 agosto Marquette Frye, nero, fu arrestato perché ubriaco al volante. Madre e fratello protestarono per il sequestro dell’auto e finirono in cella con lui. La notizia volò e alle nove di sera, cinquecento neri circondavano minacciosi la stazione di polizia. Intervenne la National Guard coi blindati e fu l’inferno in terra. Per dieci giorni Watts fu saccheggiato, bruciato e devastato. Fu impedito ai pompieri d’intervenire e tra la cenere, sull’asfalto rimasero 34 morti. Tutti neri. William Parker, capo del Lapd, li chiamò «fottute scimmie da zoo». Trent’anni dopo, stesso quartiere, Rodney King jr., tassista nero, fu fermato per eccesso di velocità e picchiato a sangue da quattro agenti. Un videoamatore filmò il pestaggio e lo mandò alle tv. Un anno dopo, il 29 aprile 1992, i poliziotti picchiatori furono assolti. La rabbia delle «scimmie da zoo» diventò tsunami. Ottanta morti, tutti neri, il quartiere raso al suolo dagli incendi. Molti si erano uccisi tra di loro, come uno scorpione in trappola. 
Lasciato Watts e la sua sanguinosa storia, siamo a Compton, ospiti dei Crips, la gang più numerosa. Controllano un territorio di oltre un milione e mezzo di abitanti, neri, ispanici e orientali. Vivono di droga e armi. Il loro simbolo è il blu, sono alleati con una ventina di sotto gang, alcune in lotta tra loro. Con l’arrivo di molti messicani, ecuadoregni e venezuelani si sono estesi a New York, Madrid, Londra e persino a Milano. I loro storici nemici sono i Bloods, i Chicano e i Latin Kings. L’organizzazione è in stile mafioso. I nuovi membri possono essere accettati soltanto se presentati da affiliati. Sono abili a stringere alleanze strategiche: con decine di piccole e grandi gang, come in una sorta di franchising. Chi ha rifiutato la protezione dei Crips, nella metà degli anni Settanta è entrato nei Bloods alleandosi con altre gang nella zona Sud-Ovest di Los Angeles: il loro colore distintivo è il rosso. Anche questa gang, la seconda per grandezza, si divide in sottogruppi alleati detti set o tre (pronuncia «trai»). 
I Bloods hanno una natura più confederativa, a differenza dei Crips, si aggregano, non controllano le sotto gang. I loro principali alleati sono i Bishops, gli Athens Park Boys e i Piru Street Boys che operano a South L.A. a gomito stretto con i nemici Crips, più presenti, potenti e pericolosi per il loro facile accesso alle armi. I Piru sono ex Crips passati ai Bloods. Il passaggio ai rivali ha scatenato, tra il 1982 e i 1985, una delle faide più sanguinose di Los Angeles con centinaia di morti. I Bloods sono ricordati anche perché alcuni loro affiliati sono diventati rapper di successo, come The Game e DJ Quick. Un loro brano recita: «È un vulcano sociale da cui noi negracci un giorno usciremo con il C4 per disintegrare le vostre case di bianchi ricchi». Il tour termina qui e per tutti c’è la t-shirt «I ain’t got shot in the hood», «non mi hanno sparato nel ghetto».