il Giornale, 14 giugno 2019
Christchurch, la squadra di rugby cambia nome
Questa storia ha per protagonista una delle squadre di rugby più importanti della Nuova Zelanda, il paese degli All Blacks, dove la palla ovale è molto più che uno sport. Loro sono i Crusaders, i crociati, vincitori delle ultime due edizioni del Super Rugby, una super lega in cui gareggiano le migliori franchigie dell’emisfero australe e del Giappone. Una squadra-mito, la cui dirigenza ha annunciato che cambierà il nome e il logo. Ma questa non è solo una storia di marketing sportivo, perché i Crusaders hanno sede a Christchurch, la citta neozelandese dove lo scorso 15 marzo Brenton Tarrant, suprematista bianco australiano, ammazzò 51 musulmani.
La notizia della revisione è stata data dalla stessa società su Twitter lo scorso 7 giugno, dopo aver ricevuto i risultati di una ricerca commissionata a due società di consulenza. I Crusaders hanno annunciato che quest’anno tutto rimarrà immutato ma che dal 2020 «il nostro logo non avrà più il cavaliere e la spada sull’abbigliamento e sugli altri elementi di marketing. Inoltre una completa revisione del marchio (incluso il nome) verrà condotta per definire il nostro futuro brand a partire dal 2021». Si cambieranno il nome e il logo, quindi. Ma perché la società ha deciso di cambiare i propri simboli identitari? L’amministratore delegato dei Crusaders, Colin Mansbridge, ha dichiarato a Rugbypass che «c’erano visioni contrapposte sul nome, ma che tutti sono incredibilmente appassionati di questo club e di quello che rappresenta». Steve Tew, presidente della Nzr, la lega di rugby della Nuova Zelanda, ha rimarcato che la scelta di rivedere nome e simboli è antecedente il massacro del 15 marzo, il quale ha solo portato a una «accelerazione» del processo. Interventi che cercano di negare un legame di causa-effetto tra l’attentato e la decisione della società di ripensarsi. Tentativi che non sono sempre stati accolti con favore dai molti tifosi dei Crusaders, spaccati tra chi appoggia la scelta (non ero felice di mostrare quei simboli, specialmente se attorno c’erano colleghi colpiti dall’attacco, scrive Tom) e chi invece protesta per la scelta incomprensibile (cinici, codardi, deboli, commentano altri tifosi).
Da un lato ci si può interrogare se sia giusto disconoscere la propria identità per non offendere la sensibilità di altre persone, pur nella consapevolezza che non si ha colpa alcuna delle loro disgrazie. Oppure se questa non sia altro che un’evoluzione figlia della storia. Dall’altro sorge un quesito sportivo che va al cuore del fenomeno del tifo: che cosa rimane di una squadra che abbandona i propri simboli, finanche il proprio nome? Quanto le prossime vittorie dei (furono) Crusaiders riusciranno a far dimenticare i vecchi colori (una combinazione di rosso e nero), il vecchio simbolo, il vecchio nome? Forse non c’è’ una risposta univoca ma dipende dai successi della squadra: tanto più sarà vincente, tanto più velocemente la gente sposerà i nuovi colori. È per questo che chi scrive rimarrà per sempre fedele al biancorosso (in quest’ordine, vi raccomando).