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 2019  giugno 13 Giovedì calendario

Ritratto di Dario Franceschini, specialista in sconfitte

Per essere uno che le ha sbagliate tutte, Dario Franceschini è arrivato sin troppo lontano. Così lontano che la sua carriera è praticamente morta sotto casa sua, nella città feudo dell’ex ministro della Cultura: la pigra, neghittosa ed esasperata Ferrara. Qui, come ora sanno anche i sassi, dopo 74 anni di monocolore cattocomunista è infine arrivata l’orda leghista a rimettere ordine. Ma la vittima numero uno del nuovo sindaco salviniano, Alan Fabbri, è appunto Franceschini che aveva spocchiosamente creduto di poter riconfermare il suo Aldo Modonesi. È una nemesi profonda e illuminante, questa, sopraggiunta sulle ali della fuga in massa di un elettorato con il quale Dario non ha mai avuto una vera confidenza. Perché la sua specialità è stata finora quella di vincere perdendo, intestandosi improbabili ripartenze e lasciando sul campo le spoglie altrui. Fin dalla nascita del Partito democratico, Franceschini si è posizionato nel luogo d’intersezione tra il vecchio e il nuovo, mettendo radici nella radura dell’opportunismo e costruendosi una corrente su misura sempre decisiva per determinare le sorti della segreteria. Ne sa qualcosa Walter Veltroni, che nel 2008 vedeva in lui il garante della propria leadership, lo scudo necessario a proteggersi dagli assalti dell’antica ditta di rito dalemiano e dal rampantismo dei rutelliani. Si sa come andò a finire: perse le politiche contro un imbattibile Silvio Berlusconi, Dario cominciò subito a bombardare la ridotta di Veltroni fino a costringerlo alle dimissioni. Quindi si prese in mano il partito per il tempo utile a consolidare la rendita di potere e sfidare Pier Luigi Bersani alle successive primarie e contrattare, subito dopo la sconfitta personale, un vantaggioso patto di galleggiamento al suo fianco.

PORTE GIREVOLI
Nel 2013 Dario riproduce lo stesso schema: il Pd bersaniano manca la vittoria e lui, invece di pagare dazio assieme al segretario, salta sul carro grancoalizionista di Letta e guadagna l’ambìto ministero dei Rapporti con il Parlamento. Quando poi Matteo Renzi sfascia tutto e rottama Letta, lo specialista ferrarese cambia casacca e trasloca ai Beni culturali dove resta, impermeabile alla staffetta di Palazzo Chigi con Paolo Gentiloni, fino al termine della legislatura. Nemmeno il tempo di perdere anche le politiche del 2018 e rieccolo zingarettiano fatto e finito, sostenitore della damnatio memoriae renziana e incline all’apertura del dialogo con il MoVimento Cinque stelle. Un capolavoro di porte girevoli culminato nell’autoconvinzione di essere divenuto anche un po’ il portavoce delle istanze segrete coltivate al Quirinale. E sì che gli stava andando di lusso anche stavolta: mai nessuno a domandarsi se non ci fosse anche lo zampino dello sfollagente ferrarese nella collana di rovesci elettorali democratici. Fino a domenica scorsa, quando il teatro della crudeltà politica ha finalmente trovato un posto anche per lui: il comune di Ferrara.

CASO UNICO
A memoria d’uomo nessun altro politico, neppure l’ineffabile vecchia volpe dorotea chiamata Pier Ferdinando Casini, ha saputo far pesare tanto a lungo e in modo tanto remunerativo un consenso così esiguo nei numeri. Franceschini invece ce l’ha fatta, alternando negli anni vaghezza, scaltrezza e prosopopea da consumato democristiano, nonché scrittore Gallimard barbuto e pensoso, mai buono e schietto. E nessun biografo potrà mai eguagliare la battuta del vignettista Osho, che al riguardo di Franceschini ha sentenziato da par suo (per interposto fotogramma renziano): «Giuda gli spiccia casa». Ma alla fine giunge anche il momento di Giuda; e arriva beffardo in quell’attimo fuggente nel quale, passate le ultime amministrative, dentro il Pd ognuno trova il modo per dirsi soddisfatto e ottimista. Tranne lo specialista di Ferrara.