il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2019
Gli attori italiani a favore del sesso sul set
“Da regista, non lo permetterei mai”. A rispedire Oltreoceano l’intimacy coordinator è Michele Placido: “Nel film che mi accingo a girare su Caravaggio, ci starebbe come un ascensore: io devo attenermi alla verità di Michelangelo Merisi. Le modelle che impiegava erano tutte prostitute minorenni, poveracce, diseredate, grazie a Dio siamo registi italiani: gli americani si facciano i loro film surgelati e si tengano il garante del sesso, noi ci teniamo il Rinascimento”.
Dell’intimacy coordinator, figura nata in epoca #MeToo sui set statunitensi per salvaguardare e disciplinare gli interpreti nelle scene di nudo e sesso, Placido non si capacita: “Il maestro Orazio Costa ci faceva spogliare, ma difficile era mettere a nudo l’anima, non il corpo”. Il regista e attore rispolvera Leonardo da Vinci: “Diceva, ‘io non sono un uomo né una donna, io sono un artista, e non ho il problema della carnalità, ma di essere al servizio dell’arte’” e traduce sul set: “Un conto è l’ispettore di produzione, che tutela i minori e l’incolumità fisica; un altro sono le possibilità del corpo, le ragazze devono essere al servizio della produzione e della regia”. Ne va della stessa espressione artistica: “Nel mio primo film, Il caso Pisciotta per la regia di Eriprando Visconti, finivo sodomizzato: la messa in scena è sovente oscena. Anche nei dipinti commissionati dalla Chiesa nel Rinascimento, non dimentichiamolo”. Tornando a Caravaggio, “non potrei oggi filmare un quattordicenne nudo come quello ritratto in Amor vincit omnia, ma il quadro scandaloso custodito a Berlino posso riprenderlo, così magari in America non mi fanno uscire il film…”.
Più morbido Mimmo Calopresti, che pure non dissimula la sorpresa: “Un garante per le scene di sesso? Incredibile! Una garanzia sui diritti, sull’etica bisogna imporla sul set, ma chi lo decide, gli attori, la produzione, chi?”. Di fronte all’ipotesi di importazione, eccepisce: “Basterebbe un po’ più di buon senso, buon vivere e onestà intellettuale, e affrontare le situazioni con serenità”. Ma è vero che “dall’altra parte dell’oceano tutto è regolato da contratti, sicché se c’è qualcuno che garantisce il più debole io ci sto”. Alle nostre latitudini, dove “il rapporto tra regista e interprete è sovente personale e intimo”, servirebbe piuttosto “qualcuno che crei una distanza: ci sono momenti troppo forti, di tensione e violenza, e raffreddare aiuterebbe. I registi odiano i coach degli attori, invece, io li ritengo importanti: creano un utile diaframma. Perché nelle scene più intense non vuoi sentire ragioni, tantomeno obiezioni, dagli attori: ‘Ma perché – ti chiedi – questo mi rompe i coglioni?’”.
“Ho fatto tante scene di nudo, e non ho mai avuto problemi: ho sempre trovato la giusta misura con gli autori”, dichiara Claudia Gerini, nelle sale con A mano disarmata di Claudio Bonivento. “In Italia se non te la senti, non ti possono imporre nulla, devono chiederti l’autorizzazione anche per eventuali take con la controfigura: si è abbastanza tutelati, per così dire, sulla parola”. Al contrario, negli Stati Uniti “tutto è gerarchico e normato: ci sono attrici che addirittura mettono sul contratto il divieto di guardarle negli occhi, per paura di persecuzioni dei fan, provocazioni sessuali e sguardi penetranti. Esasperano ogni cosa, ancor più col #MeToo: in un sistema industriale è comprensibile mettere dei paletti, ma finché non si lede l’interprete non è un peccato chiudere i centimetri di pelle scoperta dentro quattro regole?”. Per la Gerini “buon senso e sensibilità posson bastare: capisco che perdere una giornata per il diniego di un’attrice possa costare 300 mila dollari, ma serve un garante del sesso? A me creerebbe solo intralcio, di più, fastidio. Il nudo è di per sé complesso, ci sono attori che hanno un brutto rapporto col proprio corpo, qui da noi l’intimacy coordinator garantirebbe solo ulteriori imbarazzi”.
“Le scene di sesso sono problematiche sia per chi dirige sia per chi deve farle. Negli Usa sono maniacali, anche nella divisione dei ruoli, al contrario, noi ci fondiamo sulla commedia dell’arte, sull’improvvisazione”, precisa Ricky Tognazzi. Della sua esperienza da aiuto di Tinto Brass per La chiave, ricorda: “Descriveva fino al più piccolo dettaglio nella sceneggiatura, dalla cimice all’occhiello alla pipì della Sandrelli nella calle: Stefania aveva qualche dubbio, ma – le spiegai – ‘se ha scritto così vuole così’, e infatti”. Pur avendo girato una “una scena molto erotica con Zingaretti e la Ferilli in Vite strozzate”, il regista non si fa illusioni: “Brass, Salvatore Samperi, Helmut Newton, i pochi maestri dell’erotismo ne hanno fatto un genere, perché il sesso al cinema è complicatissimo. Non ha nulla di sensuale, sei in mezzo a cinquanta persone, devi simulare ancor di più, e il garante del sesso a che pro?”. Eppure, a qualcuno sarebbe servito: “Alle attrici che hanno lavorato con mio padre Ugo: era un seduttore naturale, anche quando non ci provava. Trovava sempre il modo di rapportarsi in termini amicali, perfino sensuali. Del resto, erano altri tempi: rispetto alla libertà degli anni 60 e 70 oggi siamo tornati indietro, eccome”.