Sia quel testo, che il lungo saggio Ritornare a Parmenide del 1964 sono stati ritrovati, con degli appunti, negli scaffali della biblioteca di Heidegger. Quale fu il loro rapporto? Se ne discute da oggi al 15 giugno, presso l’Università Cattolica di Brescia in un convegno internazionale (curato da Ines Testoni e Giulio Goggi).
Professor Severino, come arrivò a occuparsi di Heidegger?
«Tramite il mio maestro Gustavo Bontadini. Alla Cattolica di Milano si studiava seriamente Heidegger. E a me sembrava che il suo pensiero aprisse nuovi orizzonti alla metafisica classica».
È stato Cornelio Fabro, allora potente professore della Cattolica, a inviare i suoi due scritti a Heidegger?
«È una leggenda che li avesse ricevuti da Fabro. So che si conoscevano e so che nei rari incontri, avvenuti soprattutto a Roma, Fabro gli parlava della filosofia italiana. Da una lettera che mi scrisse il nipote di Heidegger, il reverendo Heinrich Heidegger, si capisce che il filosofo tedesco era piuttosto tiepido nei confronti di Fabro».
Un atteggiamento che estendeva a tutta la filosofia italiana?
«Non credo ci fosse disinteresse, oltretutto con lui lavoravano anche alcuni allievi italiani. Più semplicemente penso che se ne interessasse a suo modo.
Concentrandosi sui problemi filosofici più che sulle scuole di provenienza».
Heidegger fu ospite per alcuni giorni a Roma nel 1936 in occasione di un convegno durante il quale tenne una conferenza su Hölderlin.
Era presente anche Giovanni Gentile. Ma il loro incontro sfumò in un nulla di fatto. Pensa che le loro filosofie fossero incompatibili?
«Negli anni in cui scrivevo la mia tesi pensavo che la sua filosofia, come quella di Gentile, fosse la base per la metafisica classica. Quindi che non fossero così incompatibili. La verità è che ognuno dei due era troppo legato al proprio linguaggio perché potessero davvero comprendersi.
Gentile e Heidegger erano troppo concentrati sul loro pensiero per poter prendere in considerazione l’idea che qualcuno spiegasse la filosofia dell’altro».
Benedetto Croce fu tra i critici più severi della filosofia di Heidegger.
Ritiene che fosse una critica ingenerosa e comunque discutibile?
«Ma è discutibile anche il modo in cui Heidegger tratta il neohegelismo europeo, quindi anche Croce. Tra gli italiani Croce e Gentile da una parte e Heidegger dall’altra di amicizia ce ne fu ben poca».
Alla fine come pensa che i suoi due scritti siano arrivati a Heidegger?
«Von Hermann, allievo di Heidegger e curatore delle sue opere, fu testimone diretto di un certo interesse del maestro per il mio pensiero. E il nipote di Heidegger, Heinrich, sentì in più di un’occasione pronunciare il mio nome dallo zio.
Ma resta irrisolto il modo in cui ricevette i miei due scritti».
Francesco Alfieri, allievo e assistente di von Hermann, sostiene che il vero tramite tra Heidegger e lei sia stato Gadamer.
«Gadamer adorava l’Italia, conosceva perfettamente la nostra lingua ed è plausibile che avesse parlato, tra le altre cose, anche di me. Da una ricerca di Alfieri risulterebbe che nei primissimi anni Novanta Gadamer scrisse su Civiltà delle macchine un articolo sui miei scritti».
C’è una questione politica che nella lettura del pensiero heideggeriano ha preso il sopravvento. Le sembra inaggirabile la vecchia questione del suo antisemitismo?
«È appunto una questione invecchiata. Le critiche di Heidegger agli ebrei sono le stesse che egli rivolge al cristianesimo, alla metafisica occidentale, alla tecnica.
Non sono l’"avversario", ma appartengono alla grande dimensione dalla quale Heidegger intende prendere le distanze: la generale dimenticanza dell’Essere».
Che giudizio complessivo dà dei "Quaderni neri", in cui la questione dell’antisemitismo è tornata fuori prepotentemente?
«Sono decifrabili solo se si conoscono i Contributi alla filosofia che Heidegger compose quasi subito dopo Essere e tempo . I Quaderni neri erano un suo strumento di lavoro.
Non mi pare che aggiungano qualcosa di decisivo al suo pensiero.
Il loro antisemitismo è un equivoco in cui sono incappati certi critici».
Per alcuni pensatori lei ricorre all’immagine del sottosuolo. Quasi a voler dar loro una forza speculativa straordinaria.
Heidegger è un pensatore del sottosuolo?
«Nonostante la sua grandezza direi di no. I pensatori di questo sottosuolo sono coloro che conferiscono la massima coerenza e potenza alla follia che avvolge l’uomo da quando abita la terra. Pensatori del sottosuolo furono soprattutto Gentile, Nietzsche, Leopardi».
Perché non Heidegger?
«La sua "follia" fu incoerente. E tutt’altro che estrema. Alla fine si accontentò della speranza che "solo un Dio ci può salvare"».
Follia intesa in che senso?
«Non come un’esperienza psichiatrica. Ma come il tratto dell’Occidente, per cui è ovvia la convinzione che le cose nascono dal nulla e tornino nel nulla».
Tutto il suo lavoro si oppone dunque a questa follia?
«I miei scritti indicano la "non-follia", allo stesso modo che un semplice gesto della mano indica l’immenso sistema montuoso. La "non-follia" è perciò il manifestarsi dell’eternità di tutte le cose, di tutti gli stati e gli istanti del mondo e della nostra coscienza. È la risposta al nichilismo».