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 2019  giugno 13 Giovedì calendario

Uno, nessuno e centomila Conte

I suoi incontri con il capo dello Stato ce li raccontano come il festival dei sorrisi forzati, «con la differenza che Mattarella sorride e Conte ammicca». E poi, quando esce, Conte dice: «La soluzione è condivisa sul punto di convergenza». E com’è stato il confronto? «Dialogico».
Certo, sarebbe bello se questo linguaggio senza verità fosse sincero, nel senso che al “sincerismo” dava Pirandello, il quale non credeva nella verità ma nella sincerità ed era infatti nato in una contrada che si chiama Caos.
Di sicuro sarebbe bello se quella di Giuseppe Conte europeista fosse la storia di una liberazione. «Non mi piace scherzare con i risparmi degli italiani ma, se vogliono andare a sbattere, vadano» ha detto alla nostra Annalisa Cuzzocrea e ieri, a palazzo Chigi, ha davvero fatto muro con Tria, «professori d’equilibrio tra gli squilibrati», e nessuno ancora vuole credere alle sue prudenze spericolate: «Voglio carta bianca, caro Salvini». Sino a pochi giorni prima circondava il significato per neutralizzarlo: «Il dossier Europa è coordinato personalmente per non soggettivizzare il conflitto».
E allora, facciamo anche noi “sinceramente finta” che quello di Conte sia il lento ma necessario cammino di un quasi premier che diventa intero, di uno statista sempre futuro che alzando la voce contro Salvini e Di Maio («o la smettete o me vado») si sia finalmente rifiutato di fare il vice dei suoi vice e che dunque il Signor nel frattempo («alcune applicazioni lasciano una qualche incertezza che bisogna diradare») si sia trasformato nel Signor ora basta: «Resto solo se mi convincono a restare, non sarò certo io a convincere loro».
Forse la quasità di Conte, il suo essere quasi – quasi professore, quasi premier, quasi statista – che noi evocammo già nel giugno del 2018, quando fu inventato come finzione giuridica dell’Italia a 5 stelle, basterebbe ancora a spiegare il suo nuovo (l’ennesimo) carattere di uomo quasi irascibile: «Con me non funzionano i giochetti».
Ma la maschera comica del finto permaloso, che è il brontolone sottomesso, il bofonchiatore di rispetto, ormai non copre più tutta la figura di Conte, non gli calza più. E oltretutto sarebbe bello se Conte meritasse la pietà e l’umorismo pirandelliani che sono la pietà e l’umorismo d’Italia, se cioè Conte fosse “uno nessuno e centomila” non come espediente né come trucco della politica e della morale, ma perché oggi Uno, nessuno e centomila è il vademecum del perfetto italiano, la reale Costituzione del nostro Stato confusionale. Di sicuro il professore di simileloquenza che si diceva contento di «avere coagulato i partner», l’avvocato manzoniano “a cui bisognava raccontare le cose chiare; toccava poi a lui imbrogliarle”, si batte oggi contro – dice – «la logomachia», che è – pensate – la disputa verbosa e inconcludente.
Anche esteticamente, è figlio del suo tempo, arcitaliano come Salvini. Conte è la leziosità meridionale, mentre Salvini è la rozzezza settentrionale, la felpa da marciapiede e il sarto per gagà. Conte è la goffa esuberanza del baciamano da moschettiere alle signore (ricordate l’inchino a Madame Trudeau?) e Salvini invece si fa baciare la mano dai disperati del sud, in mezzo alla folla populista.
Pirandello gli darebbe ragione: il Conte che con entusiasmo esultava per le vittorie dei Cinque stelle (e ci sono le festose immagini mandate su Twitter dal collega Jacopo Iacoboni) già allora non era completamente grillino. «Non mi è mai stata chiesta – ha detto solo la settimana scorsa – alcuna attestazione di fedeltà dal Movimento 5 Stelle. Non mi sono mai iscritto, sono un indipendente». Dunque Conte (non) è burattino ma al tempo stesso (non) è Pinocchio. E sarebbe inutile rinfacciargli le mille frasi contro le lobby europee ora che dell’Europa è diventato il difensore: «Non permetterò l’uscita dalla Ue e non accetterò di essere il primo presidente del Consiglio a firmare la procedura d’infrazione contro l’Italia». Sarebbe inutile perché Conte non è un incoerente, non è un voltagabbana, ma è come Vitangelo Moscarda detto Gegè che non aveva coerenza né gabbana, ma a forza di specchiarsi diventò lo specchio, cioè gli altri.
Torniamo un attimo indietro e rivediamolo: con la Merkel, (ricordate il fuori onda?) parlava male sia di Salvini sia di Di Maio. Con Di Maio parlava male di Salvini. Con Salvini parlava male della Merkel. E se Di Maio va, per spezzare il pane della devozione con Grillo, a Bibbona, che pure non riesce a entrare nell’elenco dei luoghi “indiavolati” d’Italia come Teano, come Predappio, Hammamet, Pontida, Arcore..., Conte va invece a cercare miracoli a Pietralcina, che è il tempio della sacralità più popolare della devozione italiana. E Conte ha abusato dell’immagine di Padre Pio («ne porto sempre una nel portafoglio») proprio come Salvini ha abusato del Crocifisso. Ma, al contrario di Salvini, sa essere amabile, e a differenza degli altri due (anche Di Maio aveva platealmente sbaciucchiato il sangue di San Gennaro) ha chiesto e ottenuto udienza al Papa che di lui ha detto: «È stata una bella udienza, un’ora e più. È un uomo intelligente, un professore, sa di cosa parla».
Ecco, anche Papa Francesco l’ha aiutato a “giocare con le parti”, che è un altro Pirandello, perché Il gioco delle parti è la scienza e l’arte di sfuggire da se stesso, di disporre di identità supplementari e di giocarle vertiginosamente , ma anche “di fare per gli altri carte false pur conoscendo le vere”, insomma è il bizantinismo di uscire dal proprio ruolo pur restandoci.
Forse allora abbiamo troppo scherzato con un altro uomo drammatico della politica italiana: l’allegro gioco delle parti non è mai divertente. “Non so più cosa son, cosa faccio” canta Cherubino nelle Nozze di Figaro, smarrito come Conte nelle sue mille mezze identità, tutte vere e tutte false come i famosi meriti curriculari gonfiati e sgamati dalla stampa internazionale e non da noi italiani che nel finto curriculum tendiamo a cascare come nelle buche dell’asfalto romano.
Pensate, per insultarlo adesso i giornali delle destre, leghista e grillina, gli danno del “tecnico” dove la competenza è degradata a servilismo verso le banche, le scienze economiche e giuridiche sono subalternità alla Germania e alla Francia e in generale agli eurocrati avidi e spietati. E dunque lo paragonano, con disprezzo, ai grandi professori dell’Italia politica, da Moro a Spadolini, da Giuliano Amato a Mario Monti, da Lucio Colletti a Piero Melograni, da Marco Biagi a Stefano Rodotà. E così il professore della mezza misura colma la misura, le sue porzioni a metà diventano abbondanza di pietanze, la mezza calzetta un calzettone. E la malinconia è poesia con la verità di una citazione che Conte si è concesso in Vietnam: “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”. Si è paragonato ai “Soldati” di Ungaretti nelle trincee della prima guerra mondiale, in attesa del colpo di vento del cecchino, metafora della condizione italiana e della condizione di Giuseppe Conte. È la poesia di un uomo che finalmente sta giocando, per sé e non più per procura, la sua prima e ultima partita: o vince e davvero diventa premier, fosse pure per un giorno, oppure resterà per sempre superfluo, in fuga senza fine da se stesso: “superfluo come lui non ci sarà nessuno “.