12 giugno 2019
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Biografia di Christo
Christo (Christo Vladimirov Yavachev), nato a Gabrovo (Bulgaria) il 13 giugno 1935 (84 anni); naturalizzato statunitense. Artista. Cofondatore del progetto artistico «Christo e Jeanne-Claude» insieme alla moglie, la francese Jeanne-Claude Denat de Guillebon, nata il suo stesso giorno (13 giugno 1935) a Casablanca (Marocco) e morta il 18 novembre 2009 a New York. «Glielo ripetevo sempre: io e Jeanne-Claude eravamo gemelli nati da madri diverse. Eravamo uniti profondamente». «Lei era la parte critica del mio mestiere. Metteva in discussione il più piccolo dettaglio e vagliava ogni possibile soluzione. Manca immensamente a me e al mio lavoro, ma non smetto di avere idee anche in nome suo». «A tema c’è sempre una cosa sola: la bellezza, un grande desiderio di bellezza. La bellezza ha bisogno di situazioni uniche, in un certo senso inimmaginabili. È questo che noi cerchiamo. Per ottenerlo dobbiamo mettere in atto degli sconvolgimenti gentili del contesto che abbiamo preso in prestito» • «Quando avevo sei anni, disegnavo di continuo. Mia madre vide quel che facevo e prese un tutor privato. Dopo la scuola, prendevo lezioni di scultura, pittura e architettura» (a Paola Jacobbi). «Ho vissuto in Bulgaria fino al 1956. […] Dopo le scuole elementari e la scuola preparatoria, nel 1953 entrai all’Accademia di Belle arti di Sofia. Era una scuola conservatrice: vi si studiava architettura, scultura, pittura ed arti decorative per i primi quattro anni; poi bisognava scegliere un indirizzo. Passati i quattro anni, io non avevo ancora deciso che cosa avrei fatto. Nel 1957 completai un semestre di studio all’Accademia di Belle arti di Vienna» (ad Anita Loriana Ronchi e Paolo Pietta). Per raggiungere Vienna, Christo era dovuto fuggire oltrecortina, partendo da Praga, dove aveva soggiornato per qualche mese. «Scappammo in tanti dopo la Rivoluzione di Ungheria, alla fine del 1956. In Austria c’erano 250 mila profughi. […] Quando arrivai a Vienna sapevo parlare solo russo e bulgaro: sopravvissi lavando macchine e facendo ritratti per strada. Come tanti oggi, ma allora ci fu una grande solidarietà». «È lì che l’artista elabora la sua idea fondamentale: quella dei pacchetti. […] Potrebbe sembrare una semplice trovata ad effetto, ma non è così. All’inizio del secolo, Marcel Duchamp aveva ribaltato i linguaggi e il destino dell’arte prelevando un oggetto qualunque (scolabottiglie, ruota di bicicletta) e collocandolo in un museo, assegnandogli così de iure il valore e la visibilità di opera d’arte. Christo fa esattamente il contrario: l’oggetto diventa opera quando sparisce, quando viene sottratto alla vista e all’uso normale ma resta fisicamente, brilla nella propria presenza invisibile. Ecco allora i primi pacchetti, presentati a Parigi nel ’58» (Martina Corgnati). «Giovane e squattrinato, a Parigi, avvolgeva nella tela e legava bottiglie, lattine, bidoni. All’epoca nessuno capiva quello che faceva. Pochi lo collezionavano, tanto che per sopravvivere era costretto a fare ritratti, compreso quello di Precilda de Guillebon, madre di Jeanne-Claude. E così incontrò la donna con cui non ha mai smesso di vivere e lavorare» (Fiamma Arditi). Dichiarò Jeanne-Claude: «La mia formazione artistica si può raccontare brevemente. Quando Christo e io ci incontrammo, a Parigi, avevamo entrambi ventitré anni. Siamo nati lo stesso giorno, alla stessa ora. Christo era già un artista, io no. Io sono diventata artista solo per amore. È stato Christo a farmi conoscere dapprima il Louvre, che io non conoscevo per i suoi quadri, ma per la pista di pattinaggio a rotelle. In seguito mi condusse alle gallerie d’arte moderna, d’arte contemporanea e d’avanguardia. La prima opera realizzata in coppia è del 1961». Il percorso tra il loro primo incontro e l’inizio del loro sodalizio artistico e sentimentale non fu in realtà lineare: in un primo momento, infatti, Christo frequentò la sorellastra di Jeanne-Claude, Joyce, mentre Jeanne-Claude era seriamente impegnata con un altro uomo, con cui convolò persino a nozze. Immediatamente dopo la luna di miele, però, la donna, avendo scoperto di essere incinta di Christo, lasciò il neosposo e si unì all’artista, da cui nel maggio 1960 ebbe il figlio Cyril. «La collaborazione creativa incomincia poco dopo: e il primo frutto è il trasloco degli empaquetages dall’ambiente protetto di gallerie e musei direttamente nel paesaggio urbano o naturale» (Corgnati). Al loro debutto artistico di coppia, nel 1961, i due avvolsero con teli e corde dei barili di petrolio nel porto di Colonia. E ancora barili di petrolio impiegarono nel giugno 1962 per realizzare in rue Visconti a Parigi, in segno di protesta contro l’erezione del Muro di Berlino, The Iron Curtain (La cortina di ferro), «un muro fatto di coloratissimi barili per il petrolio, subito smantellato dopo una notte in guardina. Avrebbero voluto anche imballare gli alberi degli Champs-Élysées, ma ormai li sorvegliavano. Poi Christo e Jeanne-Claude hanno imballato una donna a Londra. Poi un albero in Olanda. Poi una fontana e una torre medievale a Spoleto. Quindi la Kunsthalle di Berna, il Museo di arte contemporanea di Chicago, e via via i grandi interventi che tutti conoscono. […] Sempre insieme? Sempre insieme. Lui, dal 1964, quando hanno preso la loro fatiscente casa a New York, il mattino presto sale nel suo studio, dove avvia tutti i lavori preparatori, gli schizzi, i grandi quadri relativi al progetto in corso – le opere, e qui sta la cosa straordinaria del loro lavoro, la cui vendita finanzia i loro giganteschi progetti, sempre, totalmente pagati da loro stessi. […] Christo, nel suo studio, lavora da solo, e, stranamente, senza di lei: non ha assistenti, non ha allievi da sfruttare, lavora artigianalmente. Lei, al piano di sotto, si occupa dei rapporti con le istituzioni, con le società da loro finanziate, con i fornitori, con le ditte di ingegneria che devono mettere in atto i giganteschi progetti nati dalla loro fantasia» (Irene Bignardi). «I due partono dal luogo o dall’oggetto che vogliono “far sparire” – un edificio, un monumento, un ponte, persino un’isola – per poi studiare nei dettagli il modo di impacchettarlo più “ecologicamente corretto”. […] Dati i costi vertiginosi di interventi ambientali come questi, l’acquisizione dei fondi in genere si protrae per diversi anni, mentre in altre occasioni l’intervallo fra ideazione e realizzazione dipende dalle autorità politiche» (Corgnati). «Nel 1976 nella regione di Sonoma e Marin in California, per esempio, con 2.050 pannelli di tessuto di nylon hanno creato una barriera lunga 39 chilometri e 400 metri, sospesa nell’aria da 144 chilometri di cavi d’acciaio. Nel 1983, invece, hanno circondato undici isole nella baia di Biscayne, in Florida, con 585 mila metri quadrati di tessuto rosa, che contrastava col verde della vegetazione e il blu del mare. […] Le loro opere non si ripetono mai. In comune, però, hanno l’aspettativa del pubblico, la capacità di vivere pochi giorni ed esistere poi solo nella memoria di chi è riuscito a vederle, l’attitudine a interagire con elementi naturali come mare, rocce, alberi, colline, fiumi, sole, vento. Ognuna, però, fa un uso diverso del paesaggio, urbano o rurale che sia. Basti pensare all’impacchettamento del Pont Neuf di Parigi nel 1985, del Parlamento di Berlino, il Reichstag, nel 1995, oppure del tratto di costa nella Little Bay, a Sydney in Australia, nel 1969. Christo e Jeanne-Claude, però, non impacchettano soltanto. Come dimostra l’ambizioso progetto dei 3.100 ombrelli, blu in Giappone e gialli in California, sei metri di altezza e otto e sessantasei di diametro, montati nel 1991 in contemporanea a Ibaraki, 60 miglia a nord di Tokio, e a Tejon Pass, a nord di Los Angeles, per mettere in comunicazione i due estremi dell’Oceano Pacifico» (Arditi). L’ultima installazione allestita in coppia fu, nel 2005, The Gates (I varchi), «il lungo percorso di archi e di tende zafferano che […] ha colorato il Central Park di New York (un progetto come sempre effimero, due settimane e poi via, costato ai nostri venti milioni di dollari, che sono stati rapidamente recuperati)» (Bignardi). Numerosi, nel frattempo, erano stati anche i progetti realizzati in Italia. «Nel ’68 impacchettarono una fontana e una torre medioevale a Spoleto (Wrapped Fountain and Wrapped Medieval Tower). Due anni dopo fu la volta di Milano, dove fra spaghi e teloni colorati finirono il monumento a Leonardo da Vinci in piazza della Scala e quello equestre a Vittorio Emanuele in piazza del Duomo. Nel ’74 la stessa sorte toccò a un muro romano presso via Veneto. […] A Torino […] pavimenti, scaloni e finestre di Palazzo Bricherasio vennero accuratamente avvolti di materiale sintetico plastificato e coloratissimo» (Corgnati). A questi, dopo la morte di Jeanne-Claude, si è aggiunto The Floating Piers (I pontili galleggianti), installazione temporanea (aperta al pubblico dal 18 giugno al 3 luglio 2016) consistente in una serie di passerelle galleggianti (larghe sedici metri e lunghe complessivamente tre chilometri) costituite da oltre duecentomila cubi di polietilene ad alta densità ricoperte da centomila metri quadrati di tessuto color giallo zafferano adagiate sulla superficie del Lago d’Iseo e in parte sulla terraferma, in modo da collegare Sulzano con le isole di Monte Isola e San Paolo. «Christo quando parla difficilmente usa la prima persona. In parte perché sa che il suo è un lavoro che senza squadra non sarebbe ipotizzabile. Ma soprattutto perché lui non si concepisce senza Jeanne-Claude, la compagna di una vita, morta nel 2009. Così anche a proposito di The Floating Piers non parla mai di “idea mia”, ma sempre di “idea nostra”, lasciando trasparire quanto sia stata feconda e imprescindibile quella loro simbiosi di intelligenza, sensibilità e cuore (“I progetti erano i nostri bambini”, spiega con un filo di tenerezza). L’idea della passerella galleggiante era sbocciata nelle loro teste tanti anni fa. Avevano tentato di realizzarla prima a Buenos Aires negli anni ’70, sul Rio de la Plata, poi sulla Baia di Tokyo per collegare due isole artificiali. Ed era il 1997. In entrambi i casi i due artisti si scontrarono con ostacoli insuperabili. Ostacoli che invece sulle sponde di questo lago lombardo sono stati spianati dall’entusiasmo dei tre sindaci coinvolti (Iseo, Sulzano e Montisola) e dalla cultura “problem solving” degli imprenditori bresciani. “Jeanne voleva moltissimo questo progetto”, racconta. […] “Nel 2015 ho compiuto 80 anni. E ho detto a mio nipote: non voglio rischiare di morire senza aver realizzato quel progetto. Jeanne-Claude ci teneva davvero tanto. Avevamo già individuato il Lago d’Iseo, soprattutto attratti dall’idea di poter lavorare attorno all’isola lacustre più grande d’Europa”. […] Perdoni la domanda scontata: nessuna relazione con l’immagine evangelica? Lei in fondo si chiama Christo… “Nessuna (e intanto sorride). Quello che muove questo progetto, come tutti quelli che abbiamo realizzato, è la ricerca della bellezza”. […] Uno si può chiedere: perché tanto lavoro per […] solo 14 giorni? “Ogni nostra opera ha un legame duplice con il tempo. Non solo è stata concepita per un arco cronologico circoscritto: noi abbiamo scelto quasi sempre la regola dei 14 giorni. Ogni opera è anche in relazione con il momento preciso per il quale viene pensata: nel caso di The Floating Piers è il solstizio d’estate, il momento di massimo sole, di massima luminosità della Terra. È un progetto di stagione. Ad esempio, a New York, a Central Park, l’ultima opera da noi realizzata, […] Gates, era pensata per l’inverno. Era immaginata per convivere con i rami degli alberi imbiancati dalla neve o dal gelo. Ognuna delle nostre opere è fatta per parlare di altre opere”. Quale, nel caso di The Floating Piers? “È il paesaggio meraviglioso che la circonda. L’opera è l’acqua, il cielo, le montagne, il verde dei boschi, Noi abbiamo ‘disegnato’ l’idea integrando questi elementi, che vengono guardati e consumati ogni giorno e che non vengono percepiti pienamente nella loro bellezza”» (Giuseppe Frangi). «Il segno del successo arrivò subito, fin dal primo giorno: il 18 giugno 2016. Ma al quinto, quando 270 mila persone raggiunsero il Lago d’Iseo perché un artista di nome Christo era riuscito nel miracolo di far camminare tutti sulle acque, ci si cominciò a preoccupare. Vigili urbani e vigili del fuoco, poliziotti e carabinieri, volontari e militari furono coinvolti nel difendere le fragili istituzioni e la limitata capienza del piccolo specchio d’acqua e nel tenere a bada la folla di uomini, donne, bambini, anziani e ragazzi determinati ad affrontare infinite code e complicati sistemi di accesso pur di poggiare i piedi sulle passerelle gialle dei Floating Piers di Christo. Oltre un milione di persone, una media di 72 mila al giorno per 18 giorni. Questo fu, alla fine, il calcolo. Ma per molti fu stima per difetto» (Alessandra Mammì). Da ultimo, nel giugno 2018 Christo ha eretto sul Serpentine Lake, all’interno di Hyde Park, a Londra, The London Mastaba, «una montagna di bidoni galleggiante. Sono 7.506 barili impilati orizzontalmente, i cui colori (bianco, due tonalità di rosso, blu e malva) si riflettono sulla superficie dell’acqua. L’opera di Christo non è piccola: misura 20x30x40 metri. Eppure si tratta della versione in dimensioni ridotte di un progetto pensato per il deserto di Abu Dhabi: 150x300x225 metri. L’opera sarebbe alta e larga come la Grande Piramide di Giza, ma più lunga» (Luca Fiore). «Dopo Floating Piers tornerà a lavorare in Italia? “Ho un grande progetto, ma è ancora segreto. E ho un grande amore per questo Paese fin dagli anni Settanta, quando rivestii Porta Pinciana a Roma (Wrapped Roman Wall, 1973, ndr). Una difficile opera di diplomazia per superare diffidenze di politici e sovrintendenti che vedevano in me solo un giovane visionario bulgaro. Ma fui molto aiutato da un artista potente che capì l’opera, nonostante il suo lavoro fosse molto lontano dal mio. Era un comunista e si chiamava Guttuso, lo conosce?”» (Mammì) • «Non è frustrante attendere magari vent’anni per realizzare un’idea? “La Land Art funziona così. Devi interagire con un luogo fisico, con la gente che ci abita, con le leggi che ci sono e discutere ore infinite su qualcosa che non esiste e non è mai stato tentato prima. I progetti sono solo nella mente di chi li vuole fare e di chi li vuole impedire, ed è da questa dinamica che nasce l’energia”. […] Qualcuno cambia fronte durante le trattative? “Sì, ma spesso sono io che cambio idea. Nel 1975 volevo impacchettare la statua di Cristoforo Colombo, a Barcellona: il sindaco ha detto no. Nel 1982 ci ho riprovato: un nuovo sindaco ha detto no. Quando il terzo sindaco, quello che poi avrebbe avuto le Olimpiadi del 1992, mi ha chiamato e mi ha detto ‘Fai quello che vuoi’, ho risposto: ‘Adesso non mi interessa’”. Ha abbandonato anche il lavoro Over the River. Stavolta perché non vuole avere a che fare con Trump. “Ho detto basta. Anche se era un progetto a cui io e mia moglie Jeanne-Claude abbiamo lavorato per 40 anni: stendere un velo su 100 chilometri del fiume Arkansas. Ma non voglio trattare con lui”. Quanto le è costato andarsene? “Quaranta milioni di dollari, ma il privilegio di pensare e pagare le proprie opere sta proprio nel fatto che non devi rendere conto a nessuno”. Era un progetto a cui ha lavorato con sua moglie, anche sua partner artistica: è stato difficile cancellarlo? “Jeanne-Claude era più radicale di me, avrebbe fatto lo stesso”» (Giulia Zonca) • «La prima colazione di Christo, nella miglior tradizione bulgara, consiste in una testa d’aglio e in uno yogurt. Yogurt anche a mezzogiorno – e una cena regolare la sera» (Bignardi) • «Si sente un uomo religioso? “No. Mi sento un essere umano ubriaco della realtà. Adoro camminare, sentire il vento, il caldo e il freddo sul corpo, parlare con le altre persone senza ricorrere alla realtà virtuale”» (Paolo Conti) • «Continuo ad utilizzare schizzi e modellini, senza ricorrere alla progettazione virtuale: anche i miei progetti hanno bisogno del contatto con la realtà» (Federico Sessolo). «Non mi piace nemmeno parlare al telefono. Infatti, se qualcuno mi telefona rispondo solo “sì” e “no”, e va a finire che pensano che io sia arrabbiato. Ma non sono arrabbiato. È che a me piace la gente vera». «Per noi parla la nostra vita. Io ancora oggi abito in un edificio industriale del XVIII secolo a New York; nel mio studio non ci sono né tavoli né sedie e, anche più volte al giorno, mi faccio a piedi 90 gradini. La nostra arte è fisicità, è recupero di sensazioni oggi oscurate dal mondo virtuale. Avete notato che i bambini giocano all’aperto sempre più raramente? Noi riesumiamo il sentore di bagnato, la vertigine che prende camminando sull’acqua, l’eco di una vallata» (a Roberta Scorranese) • «Non voglio usare chiavi politiche, letterarie o religiose per parlare del mio lavoro. Il mio lavoro è la cosa in sé. Se vogliamo, è politica in sé. Avete idea di cosa può voler dire ottenere i permessi per impacchettare il Reichstag? Convincere Mister Kohl e tutto il Bundestag? Costringerli a votare qualcosa che non esiste ancora, se non nell’immaginazione? Questa è vera dimensione politica, non illustrazione della politica, ma pura visione politica. Così come “camminare sull’acqua” non è l’immagine di un evento miracoloso, ma è il procedere passo dopo passo, galleggiando, bagnandosi, esponendosi al vento e all’umidità del lago. È una vera esperienza. […] Questa è la nostra arte: non illustrazione, ma pura esistenza» • «Il tessuto è sempre stato parte integrante dell’arte: basti pensare al ruolo delle pieghe nei dipinti, da quelle più spigolose del Medio Evo a quelle flamboyantes del Barocco. Poi vi fu Rodin, che, dovendo fare la statua di Balzac, ne fece due, la prima di Balzac nudo, con tutti i dettagli in vista, e poi una seconda, per la quale intinse nel gesso la cappa dello scrittore coprendone tutta la figura. In questo modo, però, vennero messe in risalto le proporzioni, che spesso nei dettagli si perdono. Il mio progetto del Reichstag a Berlino fu simile: un edificio tipico vittoriano, ornato, pieno di dettagli, che per due settimane, nel 1995, abbiamo nascosto con tessuto e corde. Questo mise in evidenza la struttura principale dell’edificio» (ad Angela Maria Piga). «Si tratta sempre di svelare e dare nuova vita. È successo con il Reichstag di Berlino, che una volta sparito sotto la stoffa è diventato altro, e succede anche con un oggetto» • «Il mio dialogo con gli artisti del passato è continuo. E nelle mie opere mi è capitato spesso di usare carta di giornali in cui apparivano celebri opere» • «Sono nato in un Paese comunista: da lì sono scappato, perché era tale il bisogno di diventare artista ed essere un uomo libero da spingermi a Parigi completamente solo, senza amici né parenti, e senza sapere una parola di francese. Ho conquistato la mia libertà millimetro per millimetro, e non la cedo di certo per denaro. Ho finanziato i miei progetti con i miei soldi e sono arrivato a realizzarne di molto costosi. Ma ogni cosa è stata una mia/nostra decisione libera, assoluta, che arrivava dal cuore. Solo così i progetti prendono forza al punto di convincere parlamenti interi a dare permessi per qualcosa di completamente inutile e irrazionale». «La libertà è ciò a cui tengo maggiormente. Il privilegio di pensare e pagare le proprie opere sta nel fatto che non devi rendere conto a nessuno». «Un caso così affascinante e interessante di organizzazione del lavoro e di uso degli autofinanziamenti […] che la Harvard Business School […] ha dedicato al team di Christo e Jeanne-Claude uno studio, un "case study" di ventidue pagine, intitolato Christo and Jeanne-Claude: The Art of the Entrepreneur, in cui i massimi esperti bostoniani fanno tanto di cappello alla bravura della coppia di organizzarsi e autofinanziare le proprie imprese, combattendo contro le burocrazie e le prudenze delle amministrazioni, seducendo le banche e le associazioni locali, in un lento, lungo lavoro verso la realizzazione dei loro progetti» (Bignardi) • «Per me e Jeanne-Claude ogni nostra opera è come la vita. È una cosa preziosa che non può essere presa, trattenuta, conservata, se non nel ricordo, e che dunque non può appartenere a nessuno, neanche a chi la crea» (a Paola Centomo). «Arte per me significa creare opere vive che sono lì per essere partecipate dal pubblico. I nostri sono lavori di gioia e bellezza, per noi che li costruiamo e per le persone che li vivono». «Noi non siamo degli artisti normali. Noi siamo pittori, scultori, architetti, urbanisti allo stesso tempo. Se certe opere figurative vengono esaminate e criticate una volta realizzate, gli interventi sull’ambiente, sul territorio, sul tessuto urbano o rurale devono essere discussi prima. Noi reinterpretiamo l’esistente. E per quindici giorni, un mese, tanto durano le nostre installazioni, la realtà è quella. La nostra» • «Lei ha detto che essere artista non è una professione. E allora che cos’è? “È un modo di vivere, una cosa che sei tutto il tempo: non puoi per qualche ora al giorno riposarti o staccare. Sei sempre artista”. […] I vostri lavori durano solo due settimane. “Ma il mio lavoro non sono le tende in Colorado o […] la passerella sul Lago d’Iseo. Il lavoro è l’insieme del percorso, da quando io immagino l’installazione fino a quando verrà condivisa da tutti. Ogni progetto ha una sua identità, e ognuno è unico e irripetibile. Sa che cosa diceva Jeanne-Claude? Che l’aspetto migliore delle cose è il non saperle ancora fare. Perché esiste la possibilità di imparare a farle”. Ha vissuto la vita che desiderava vivere? “Non posso dire che avessi un piano. Certo, ho vissuto facendo quello che desideravo. E vorrei morire come Jeanne-Claude, portata via da un aneurisma in pochi istanti. Non voglio ammalarmi”. […] Si considera un uomo di successo? “Ma no, il successo non c’entra con le mie opere”. Il fatto di riuscire a concludere imprese come impacchettare il Reichstag a Berlino, o circondare di stoffa le isole della Florida, sì. “A che prezzo. Quanta angoscia. Ma, come diceva Jeanne-Claude: non possiamo lamentarci, perché siamo sempre stati noi, con le nostre idee, a creare questi problemi. Ricordo che nel progetto degli ombrelli, che si faceva in contemporanea in California e in Giappone, le trattative con i proprietari delle terre che saremmo andati a occupare furono estenuanti. Solo in Giappone incontrammo oltre 400 proprietari di piccoli pezzi di risaie. Erano persone tutte diverse tra loro, tra i 62 e i 92 anni. Jeanne-Claude diceva sempre che, per convincerli, aveva dovuto bere sei mila tazze di tè verde…”. Era parte dell’opera? “No: era proprio quella l’opera”» (Jacobbi).