Corriere della Sera, 12 giugno 2019
Il collega che sgomita è un robot
«Facevo il cottimista (...). Lavoravo per la produttività. Incrementavo io, incrementavo. E adesso? Adesso cosa sono diventato? (...). Ecco, io sono come una puleggia, come un bullone. Ecco, io sono una vite. Io sono una cinta di trasmissione, io sono una pompa».
Corpo e lavoro come un’unità indistinta. Così si vedeva Lulù Massa, protagonista del film di Elio Petri «La classe operaia va in paradiso» nel 1972. Lulù, operaio in una catena di montaggio, arriverà col tempo alla consapevolezza che il suo corpo è soltanto un pezzo di ingranaggio all’interno di una macchina che non governa. E neppure conosce. Un bullone, appunto. Quello che non sa è che il suo monologo disperato sull’alienazione del lavoratore cade alla vigilia della Terza rivoluzione industriale, quella informatica, da cui promana l’era digitale che utilizzerà i sistemi elettronici e l’Information Technology, per incrementare l’automazione puntando a sostituire la manodopera umana.
La Quarta rivoluzioneOggi siamo già in piena Quarta rivoluzione industriale, quella dominata dall’intelligenza artificiale. Nel giro di cinquanta anni siamo passati dallo sfruttamento del corpo all’esternalizzazione della mente. La prospettiva di un mondo del lavoro popolato da robot che agiscono, ma soprattutto pensano, al posto nostro non è più fantascienza ma un problema prima di tutto politico. Toccherà alle nuove classi dirigenti governare l’innovazione limitandone i costi sociali.
Ma prima di chiederci come sarà il nostro futuro facciamo un passo indietro e torniamo al corpo di Lulù. «Già tra gli anni ‘20 e i ‘30 – spiega Guido Cavalca, ricercatore in Sociologia economica all’Università di Salerno – alcuni studi sull’organizzazione industriale mettevano in evidenza i lati oscuri del taylorismo, cercando soluzioni allo sfruttamento del lavoro umano e all’alienazione attraverso riflessioni su aspetti psicologici e identitari».
Negli anni ‘50, con l’avvento della Scuola delle Relazioni Umane, è la sperimentazione condotta da Elton Mayo a verificare sul campo l’effetto di alcune variabili ambientali sulla produzione degli operai della Western Electric Company. I ricercatori capirono che la produzione aumentava con la riduzione dell’orario di lavoro e l’introduzione delle pause. Non solo. Anche l’ambiente sociale, cioè la possibilità di sviluppare relazioni sul lavoro, influiva sul rendimento più del fattore economico.
Ma sgravare il corpo dalla pervasività del lavoro quotidiano non poteva bastare a arginare il senso di alienazione e di isolamento di Lulù. È l’avvento della tecnologia a modificare il rapporto uomo-macchina. L’automazione libera il corpo dai lavori più duri e in molti casi (ma non sempre) richiede agli operai di adoperare la propria intelligenza. È il sociologo Chester Barnard (dirigente d’azienda) a elaborare il passaggio successivo, formulando la teoria del «sistema cooperativo», cioè la necessità di una collaborazione tra chi dirige l’azienda, i capi-reparto e gli operai. Oltre all’importanza dell’uso sistematico di incentivi morali e economici.
Il modello Toyotista«Tutte le trasformazioni attuali del lavoro si rifanno ancora a queste teorie – dice Cavalca – fino ad arrivare alle forme più innovative e contemporanee di organizzazione del lavoro che prevedono la partecipazione del lavoratore. E ai modelli di “bossless organization”, dove è ampia l’autonomia di lavoro e l’organizzazione per gruppi, secondo il modello Toyotista poi portato in Occidente».
Lo schema giapponese trova la sua evoluzione nel World Class Manifacturing, sviluppato dal gruppo automotive Fca, il cui obiettivo è la riduzione dei costi produttivi (zero scorte, zero scarti) e dove i gruppi di lavoratori possono arrivare fino a bloccare la produzione, se questo è in linea con l’obiettivo. La responsabilizzazione dei gruppi dunque è elemento centrale.
Richiedere il coinvolgimento del lavoratore, incentivare la sua motivazione, hanno però un prezzo. In un’azienda dove la gerarchia non si avverte, un’azienda famiglia, il tempo del lavoratore deve essere elastico, la sua vita privata permeabile, la sua mente sempre connessa. «Barnard già negli anni ‘40 esaltava la capacità del dirigente di rendere più ampia possibile l’“area d’indifferenza” del lavoratore, con naturalezza, senza sentire pressione. Perché i suoi scopi vengano a coincidere con quelli dell’azienda».
Non è più il corpo dunque l’obiettivo. Anzi la smaterializzazione del lavoro rende possibile che questo pervada la vita ovunque. È il tempo, dunque, la nuova variabile.
Ma il modello taylorista oggi non è del tutto morto. Ritorna nei magazzini Amazon, dove il lavoro è guidato e scandito da una macchina. Un modello in cui la tecnologia porta totale alienazione, dove non è richiesta partecipazione al lavoro. Uno schema destinato all’estromissione del lavoratore dal circuito produttivo, se è vero che alla Cmc di Città di Castello (Perugia), Amazon ha commissionato il sistema Cartonwrap: un nastro trasportatore su cui scorrono le merci che i robot scansionano per creare imballaggi su misura, al ritmo di 700 all’ora. Esuberi previsti negli Usa: 1.300. Corpi che non servono più.
I lavoratori invisibiliVa appena meglio, per ora, ai lavoratori invisibili della Gig economy (i micro-lavori fatti attraverso piattaforme tecnologiche), come quelli che istruiscono l’intelligenza artificiale stando seduti tutto il giorno davanti a un Pc. «Tecnicamente sono lavoratori autonomi: non hanno gerarchia – spiega Cavalca —. Tutto avviene attraverso piattaforme, anche il pagamento, se il lavoro è fatto bene». Un ritorno al cottimo, direbbe Lulù.
Il punto è: ci si deve difendere dalla tecnologia? Dobbiamo rimpiangere la produzione dei pacchi o la raccolta non automatizzata dei pomodori nelle nostre campagne? Non lo crede il sociologo del lavoro Domenico De Masi che da sempre teorizza la necessità di reimpiegare i lavoratori per mansioni superiori a quelle che una macchina può svolgere da sola. Ma soprattutto postula una riduzione dell’orario di lavoro sul modello tedesco. Ecco i suoi calcoli: «In Germania si lavora in media 1.371 ore, da noi 1.725 ore. Un italiano lavora 400 ore in più di un tedesco all’anno ma produce il 20% in meno e ha una busta paga più leggera del 20%. Non solo. Loro con 400 ore in meno hanno una occupazione del 79%, noi del 58%, loro una disoccupazione del 3,8% noi dell’11%».
La sfida a reinventare il lavoro va accolta rapidamente. Il futuro è alle porte, come testimonia l’ultimo rapporto del World Economic Forum, «The Future of Job 2018» che, a sorpresa, traccia scenari incoraggianti nel rapporto tra nuove tecnologie e lavoro umano. Ma a certe condizioni. Ecco la previsione: entro il 2022 l’intelligenza artificiale e i robot creeranno 133 milioni di posti di lavoro mentre ne verranno meno 75 milioni. Con un saldo di 58 milioni di posti lavoro in più.
Dove osano i robotL’intelligenza artificiale sostituirà il lavoro umano nel terziario, anche avanzato. Nel campo sanitario, ad esempio, spariranno alcune professioni ma se ne creeranno delle altre che opereranno in modo diverso e in luoghi fisici diversi dagli attuali. Un assaggio di come le competenze dovranno cambiare e integrarsi fra loro lo hanno appena dato la Humanitas University e il Politecnico di Milano, creando un nuovo corso di laurea, unico a livello mondiale: la Medtech School, dove si cercherà di integrare i saperi della Medicina con quelli dell’Ingegneria biomedica.
E i robot umanoidi? L’intenzione di utilizzarli al posto degli uomini riguarda un range che va dal 23% al 27% del campione intervistato. E a subire il cambiamento non saranno principalmente gli operai. A suonare la carica dei robot sono infatti le professioni della finanza, in declino poi i «colletti bianchi» che svolgono mansioni routinarie o di base, come quelli che inseriscono dati, gli addetti alla contabilità e alle buste-paga, i segretari, i revisori, i cassieri.
Per dare un’idea concreta della sostituibilità, il report ipotizza che, se nel 2018, in media il 71% delle ore lavorate è svolto da umani contro il 29% dalle macchine, entro il 2022, il rapporto sarà di 58% contro 42%. Il cambiamento influirà anche sul modo di lavorare. Il 50% circa delle società intervistate prevede che, entro il 2022, a ridursi, grazie all’automazione, sarà la forza-lavoro a tempo pieno. Si accentuerà il trend già in atto di utilizzare lavoratori flessibili ma anche la cosiddetta «taskizzazione», cioè la tendenza a affidare mansioni specifiche a chi lavora, spezzettando ancora una volta l’organizzazione del lavoro. E naturalmente non mancherà chi potrà lavorare da remoto e/o senza un posto fisico determinato.
La via della formazioneCome abbiamo anticipato, il rapporto è ottimista circa il bilancio finale di questa rigenerazione del lavoro: entro il 2022 nelle professioni emergenti la percentuale di lavoro aumenterà dal 16% al 27%, mentre nelle occupazioni tradizionali scenderà dal 31% al 21%. Tutto questo a patto che i lavoratori vengano adeguatamente formati: entro i prossimi tre anni il 54% dei lavoratori dovrà essere interessato a un processo di riqualificazione e/o acquisizione di nuove competenze. Se questo non dovesse avvenire, è l’avvertenza, gli squilibri sociali già esistenti si accentueranno, creando un’ingestibile platea di nuovi emarginati.