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 2019  giugno 10 Lunedì calendario

Recensione del film ’Beautiful Boy’ di Felix van Groeningen

Ma perché?». «Non lo so…».
Lo scambio di battute tra padre e figlio dopo che il primo ha scoperto che il secondo si droga riassume con perfetta efficacia il dramma intorno a cui si sono scontrate tantissime famiglie e che hanno cercato di raccontare molti film. In quelle battute c’è la voglia di scavare dentro scelte e comportamenti che sbattono contro la razionalità, il buon senso, l’interesse, alla ricerca di colpe, mancanze, errori o passi falsi. Di fronte a scelte all’apparenza immotivate se non addirittura auto-punitive il modo più immediato e umano di reagire dei genitori (o dei fratelli, o degli amici o di chi sta vicino al drogato) è quello di chiedersi dove si è sbagliato, dove si sarebbe potuto fare di più e meglio. L’abbiamo visto spesso esemplificato (e semplificato) al cinema, prima quando si parlava di alcolismo, adesso a proposito della droga.
Beautiful Boy, fin dal titolo preso da una canzone di John Lennon, si muove su un altro terreno. O meglio: cerca di affrontare quell’argomento da un punto di vista diverso. Non cavalcando il dramma (delle colpe e degli errori) ma scavando dentro il senso di impotenza e di inadeguatezza. Per cercare di capire non cosa si nasconde dietro quel «non lo so», ma quello che scatena.
Non per nulla il film di Felix van Groeningen (regista belga cooptato a Hollywood) parte da due libri, quelli scritti dal padre David Sheff e dal figlio Nic che raccontano la stessa cosa da due punti di vista diversi: il padre che cerca di capire «perché?» e il figlio che forse sa rispondere solo «non lo so». Per questo il film non poteva iniziare che con la visita – cronologicamente posteriore alla scoperta che il figlio si drogava – di David (Steve Carell) a un’analista (Timothy Hutton): vuole capire tutto sulle droghe e soprattutto sul micidiale Crystal Meth, la metanfetamina di cui Nic (Timothée Chalamet) è diventato dipendente.
Inizia così, con un salto indietro nel tempo come a sottolineare l’andamento non lineare del racconto (sceneggiato da Luke Davies col regista) questa specie di privatissima odissea dove un padre e un figlio si cercano, si evitano, si scontrano, si sfuggono e si ritrovano. In che mondo sono cresciuti lo scopriamo scena dopo scena, ora avanti ora indietro nel tempo. A volte il film sembra proporre una possibile spiegazione (la separazione dei genitori di Nic? Il peso di responsabilità che un padre giornalista può far cadere su un figlio con aspirazioni letterarie? L’inadeguatezza del giovane di fronte agli impegni del college?) ma subito dopo c’è una scena che si incarica di smentire quello che ti sembra di aver capito. Fatto salvo qualche comprensibile momento di tensione i due genitori cercano di fare il massimo e la nuova compagna di David ama Nic come un figlio. Né l’università sembra uno scoglio troppo duro da affrontare.
Perché allora? La spiegazione si può forse trovare in quel senso di «stupida realtà quotidiana» con cui Nic (e come lui qualche milione di suoi coetanei) deve fare i conti. Un senso di vuoto e di inutilità (o di vacua ribellione) all’origine della poesia di Charles Bukowski Let It Enfold You che Nic cita in una scena del film e che poi Chalamet ripropone nella sua interezza alla fine del film, sugli ultimi titoli di testa (quindi non uscire prima della fine). Anche se poi quel testo finisce piuttosto per descrivere uno stato d’animo, ma non aiuta certo a spiegarlo. Perché dietro il fascino delle parole, dietro la forza di certe frasi trovi la maestria letteraria di Bukowski ma resti comunque senza spiegazioni, senza aiuti a capire.
Per questo alla fine del film ti ritrovi con tutti i tuoi dubbi irrisolti (la pubblicazione dei due libri e una didascalia fanno capire che uno sbocco positivo alla fine ci sia stato) anche se come spettatore una certezza ce l’hai: quella di esserti trovato davanti a due attori in stato di grazia, Carell nel ruolo di un padre lacerato e sofferente ma mai melodrammatico, Chalamet in quella di un figlio altrettanto convincente senza dover ricorrere alle scene madri che sfruttano la disperazione. Due prove superbe.