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 2019  giugno 11 Martedì calendario

Eduardo De Crescenzo: «Sono Ancora sulle scene: mi concentro su Essenze jazz»


Eduardo De Crescenzo, cantante e musicista, è nato a Napoli.
I meno giovani se lo ricordano ancora, sul palco dell’Ariston in quel lontano 1981 – zazzera, baffetti e occhiali a fondo di bottiglia – intonare le melodie struggenti di Ancora. Il giovane Eduardo De Crescenzo non vinse (la giuria gli preferì Per Elisa di Alice), ma quella canzone piacque talmente a tutti da meritarsi, oltre al premio speciale per la migliore interpretazione, la quasi immortalità. Sono passati quasi quarant’anni infatti e, complice la trasmissione di Marzullo, quel brano non smette di commuovere e affascinare. Dal canto suo, l’oggi 68enne De Crescenzo si è ben guardato dal rimanere abbarbicato a quella mitica canzone ed è andato avanti, con la sua voce da «Stevie Wonder italiano» e l’immancabile fisarmonica a comporre brani. Più spesso lontano dai riflettori ma con immutata passione verso sua maestà la musica. Quest’anno, ad esempio, sta svolgendo una tournée che lo ha portato nei teatri di tutta Italia ad eseguire i brani del suo ultimo disco Essenze jazz, elegante rivisitazione di un repertorio intenso e mai banale composto da brani come Quando l’amore se ne va, L’odore del mare, E la musica va.
Il jazz è l’inevitabile approdo della maturità oppure, in fondo, è sempre allignato nelle corde della sua musica?
«Essenze jazz è il titolo che darei oggi alla mia musica. Cercavo un suono che potesse rappresentarmi oggi, che potesse esprimere tutto il mio percorso in un unico concerto. Una specie di biografia in note che attraversa il repertorio ma anche le peculiarità espressive che ho cercato nel corso degli anni. I colori del jazz e l’amore per la composizione estemporanea creano emozioni diverse a ogni concerto e questo è molto stimolante sia per noi che suoniamo sia per il pubblico in sala».
Una carriera impegnata ma per molti anni lontano dai riflettori. Una scelta o la logica conseguenza di un percorso mai troppo commerciale?
«A parte gli esordi, nei primissimi anni ’80, ho sempre preferito la dimensione del concerto a quella del grande riflettore televisivo. Sono linguaggi molto diversi, in alcuni casi inconciliabili. È complicato però trovare una risposta univoca perché i mezzi di comunicazione hanno subito negli anni molte trasformazioni e, con l’avvento del web, una rivoluzione epocale. Se è vero che una certa televisione generalista ha richiesto ospitate sempre più strambe e fuorvianti, è anche vero che sono arrivati i canali tematici. Sky Arte, ad esempio, ha dedicato a Essenze jazz uno speciale di un’ora che entra in punta di piedi nella dimensione del concerto. Poi i social che, con tutti i limiti del caso, consentono di mantenere un filo diretto con il pubblico. Insomma, i riflettori si sono diversificati e moltiplicati».
Eppure il grande pubblico la identifica ancora oggi in quella canzone-poesia di Sanremo che racconta l’amore disilluso. Com’è nata Ancora?
«Diciamo che l’associazione è istintiva: se dici Modugno dici Volare, se dici Frank Sinatra dici My way... ma questo lo sai a cose avvenute, impossibile prevederlo o addirittura progettarlo. Un successo mondiale spontaneo avviene poche volte in un secolo. Ci sono carriere onoratissime che non hanno mai conosciuto questo brivido. A me è capitato addirittura alla prima apparizione. È una magia che sfugge al controllo».
Gigi Marzullo, scegliendola come sigla di Sottovoce ha contribuito non poco all’immortalità di Ancora. Gliene è grato o preferirebbe essere riconosciuto anche per il suo ricco repertorio di 12 album?
«Ancora era già un evergreen conclamato nel mondo quando Gigi Marzullo l’ha scelta come sigla. Una volta fui ospite in una sua puntata e mi disse che non avrebbe mai cambiato la sigla di testa del suo programma perché gli portava fortuna. Per milioni di italiani è quasi una sigla di buonanotte, come per la mia generazione fu la musica di Carosello. Il pubblico dei concerti, invece, è più esigente, non cerca solo una canzone ma un mondo musicale».
Pochi lo sanno ma lei non nasce come cantautore, bensì come musicista. È vero che a cinque anni si esibì con la sua fisarmonica al Teatro Argentina di Roma?
«Ho iniziato a suonare la fisarmonica a orecchio a tre anni, a cinque ho debuttato al Teatro Argentina come enfant prodige e ho iniziato gli studi di musica classica. Negli anni che seguirono cominciai a capire che la voce aveva un ruolo importante nella mia espressività musicale. Le etichette mi lasciano sempre perplesso: mi sento l’autore di un mondo sonoro da interprete e compositore. La parola cantautore in Italia ha un’accezione socio-politica-letteraria più che musicale. Come si potrebbe definire, ad esempio, Lucio Battisti? Cantante? Interprete? Compositore? Eppure basta il suo nome per identificare un mondo sonoro originale e innovativo che da molte generazioni continua ad attraversare il tempo».
Il suo uso di una «voce strumento» è ancora inconfondibile nel panorama italiano. Chi sono stati i suoi modelli?
«Sicuramente Ray Charles, il padre di tutta la musica contemporanea. La prima volta che ascoltai un suo disco ero poco più che adolescente: fu una folgorazione! Scoprivo da lui le scale musicali del jazz ancora considerate volgari nel mondo classico che frequentavo, scoprivo la possibilità di suonare la voce. Consumavo però anche la musica di Gennaro Pasquariello, uno straordinario interprete napoletano di inizio Novecento che, probabilmente influenzato dai primi chansonnier francesi, diede vita a interpretazioni innovative e poetiche dei grandi classici napoletani».
Quanto è importante il rapporto con Napoli nel suo percorso artistico e umano?
«Il rapporto con Napoli è vitale. La mia musica nasce nelle sue strade, nelle sue notti, nelle sue giornate di sole, tra la sua umanità così ricca di contraddizioni. La musica è un linguaggio universale perché è il suono delle nostre emozioni: è sogno, malinconia, gioia, protesta... Quella musica produrrà lo stesso effetto in ogni punto della terra in cui si trovi l’ascoltatore. Racconta però anche il contesto e le radici culturali di chi la sta producendo».
Una lunghissima gavetta la sua al servizio della musica. Che cosa pensa dei talent e della fruizione della musica nelle nuove generazioni?
«Ogni generazione ha il suo suono. I talent sono la vetrina di oggi, possono essere una possibilità per farsi notare, come per noi lo erano Castrocaro o il festival di Sanremo. Devo aggiungere con onestà che ho sempre avuto un’istintiva diffidenza verso i contenitori perché è molto facile che assoggettino l’espressività al proprio format. Questo purtroppo produce polli in batteria, omologazione... e un artista diventa interessante solo per la sua unicità».
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