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 2019  giugno 11 Martedì calendario

«Caro compagno», l’anima di Berlinguer in una lettera

Enrico Berlinguer, politico militante, è nato a Sassari.
Sostiene il compagno Sergio Fazi che Enrico Berlinguer “l’hanno fatto morì accorato”, col cuore gonfio di amarezza, “per colpa della questione morale”. Sostiene Sergio che il segretario del Pci era amato dalla gente, ma nel partito c’erano troppi dirigenti con un’idea della politica meschina, lontana dalla sua (Sergio fa i nomi, ma questa è un’altra storia).
Berlinguer è morto esattamente 35 anni fa, l’11 giugno 1984: si è spento a Padova quattro giorni dopo l’ultimo comizio, quando un malore lo colse sul palco e lo costrinse a uno sforzo disperato e struggente per arrivare alla fine del discorso. Bisogna rivedere quel filmato: la figura austera, il linguaggio rigoroso e complesso. Sembrano passati due secoli, più che 35 anni.
Eppure quella figura rimane. “Berlinguer ti voglio bene” è il titolo di un film di Giuseppe Bertolucci con Roberto Benigni ma pure, ancora, un sentimento collettivo. Per capire come sia possibile questa memoria ostinata e questo affetto quasi irrazionale per un uomo di partito, bisogna parlare con le persone che riannodano quotidianamente i fili di quei ricordi.
Come Sergio Fazi, appunto. Classe 1946, romano dell’Appio Latino, tessera del Pci dal 1962, segretario di circolo per tanti anni e figura di riferimento nel quartiere da sempre. Indossa una maglietta rossa, siede su una panchina e stringe in mano un foglio, la fotocopia di un documento dattiloscritto. “Ora vi spiego chi era Berliguer”, dice.
“Questa lettera è del 24 marzo 1981, ha la sua firma. Lui, il segretario del Partito comunista italiano, aveva trovato il tempo per ringraziare me, che ero un compagno qualsiasi”. La storia è questa: “Io gli mandai una missiva perché sapevo che sarebbe stato ospite di una tribuna politica e gli volevo dare un consiglio: sicuramente i giornalisti proveranno a metterti alle strette sui rapporti del Pci con l’Unione Sovietica, tu invece parlagli dei problemi concreti della gente. Non sapevo se l’avrebbe mai letta e non pensavo certo che avrebbe risposto”. Invece andò proprio così, Berlinguer iniziò quella trasmissione raccontando la storia di un pensionato in difficoltà e portò il dibattito sul terreno che gli stava a cuore. Dopo qualche giorno, nella piccola sezione del Pci dell’Appio Latino si presentò una collaboratrice del segretario che portava in mano una busta. Sergio Fazi non poteva crederci. C’era scritto questo: “Caro compagno, durante la conferenza stampa alla televisione ho tenuto sul tavolo la tua lettera, pronto a leggerne un passo nel caso che il primo giro di domande dei giornalisti avesse riguardato solo questioni internazionali e di politica generale. Come avrai visto, questa volta vi sono state diverse domande che mi hanno consentito di trattare alcuni problemi di largo interesse popolare. Ti ringrazio per la tua lettera e i tuoi consigli, in ogni caso utili. Fraterni saluti”. E la firma a penna: Enrico Berlinguer.
Sergio ha ancora gli occhi lucidi. “Questo era l’uomo. Di un’umiltà che oggi non si può nemmeno immaginare”. E questo era il Pci: “Un partito che parlava alle persone, stava in mezzo alla gente, in mezzo alle strade”. Si scioglie in un flusso di ricordi. Racconta di quando da ragazzo portava l’Unità ai baraccati del “borghetto Latino”, un gruppo di tre o quattrocento famiglie che viveva ai margini del parco della Caffarella, dentro abitazioni che erano scatole di lamiere. Il Pci trovò loro una casa vera, guidando l’occupazione di un grande palazzo disabitato dietro la basilica di Santa Maria Maggiore, in piazza dell’Esquilino. Sergio c’era.
“La domenica mattina – dice – in mezzo alle baracche ci stavamo noi con il giornale e la suora con il crocifisso e la campanella”. Due chiese. La sua vita è un piccolo saggio nel grande racconto collettivo del Pci: la prima tessera a 16 anni (“Mia madre, avvertita dal prete di quartiere, me la strappò: ero il primo comunista della famiglia”), poi il lavoro da tipografo nella stamperia dell’Unità e del Paese Sera.
Le figure per lui coincidono, Berlinguer era il partito, il partito era la politica, la politica era il rapporto con gli altri: “Ti svegliavi e sapevi che dovevi cambiare la società”. Ricorda quel segretario, quell’uomo buono, e piange ancora, sulla panchina di piazza Scipione Ammirato, vicina alla vecchia sezione. Cita le parole finali di uno dei comizi di San Giovanni che “ancora mi danno i brividi come allora”: “Compagni, tornate nei quartieri e nelle case, portate la voce del partito comunista”. E poi racconta i lucciconi che rigavano le guance a tutti, il giorno di quei funerali monumentali che hanno bloccato la città e fermato il tempo, il 13 giugno 1984.
Il racconto di Sergio Fazi è spezzato come l’eredità di quella storia. Ci sono anche le amarezze, la perdita del lavoro in tipografia e poi il congedo dal partito: “Non ero un nostalgico, né un gruppettaro, un radicale. Per me potevamo pure cambiare nome ma non dovevano tagliare le nostre radici”.
Quello che rimane della lezione di Berlinguer suona nelle parole che vuole consegnare ai nipotini: “Non vivete in pantofole, ribellatevi alle ingiustizie”. E nell’abbraccio alla moglie, il giorno che decise di non rinnovare più la tessera: “Non siamo riusciti a fare il socialismo in Italia, facciamolo a casa nostra, volemose bene”.