Anteprima, 7 giugno 2019
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Biografia di Emma Fighetti
Emma Fighetti (1911-2019). Sarta. Partigiana. «Il suo racconto inizia dalla fine, quando fece un comizio a Baggio, appena dichiarata la fine della guerra e, poi, con le donne dell’Udi sfilò in corteo, in bicicletta, per le vie del centro. Conserva la foto ricordo. La bandiera, ricorda, “l’avevo fatta io, come tante altre, con la fodera rossa comprata per i vestiti”. Fare la sarta era il suo mestiere. E ha usato la macchina da cucire fino a pochi anni fa. “Mi sono fatta da sola gli abiti finché non ho compiuto 95 anni” […]. Esattamente com’era a 20 anni, quando scese a Baggio da Premeno, sul Lago Maggiore, dove era nata, per sposare Domenico Quinteri. “Ci eravamo conosciuti, perché veniva in vacanza e andava a camminare in montagna con mio zio”. Cominciò sola come sartina e in poco tempo, a Baggio, Emma aprì un laboratorio con sette lavoranti. Fu questo spirito intraprendente a guidarla quando la sartoria divenne un’eccellente copertura per le attività di sostegno ai partigiani. “Preparavo la colla con acqua e farina e la distribuivo ai ragazzini che dovevano affiggere sui muri e sui pali i volantini contro i fascisti”. Domenico, il marito, lavorava in una fabbrica di vernici in via Lorenteggio e “andava a spigolare nei campi per portare il grano di notte al mulino e rifornire i gruppi che si nascondevano nei pioppeti al bosco di Cusago. Ma lui non sapeva cosa facevo io e viceversa, così doveva essere”. In tanti sono sfuggiti alla cattura passando “attraverso il solaio di casa mia, erano giovani che non volevano essere reclutati dall’esercito o partigiani braccati” e quante volte “ho nascosto le armi che i ragazzi portavano via ai fascisti nel sottofondo del letto di mia figlia Adriana”. Ride Emma e ci spiega con lo sguardo che s’illumina: “Ero una sovversiva...”. Un paio di volte, ammette, “ho rischiato di essere arrestata” e allora sì, ha avuto un po’, solo un po’, di paura. “Servivano soldi per i partigiani, cibo, vestiti. I miei vicini di casa erano fascisti e io facevo gli abiti per loro o per le amanti di qualche gerarca – racconta – A volte i ritagli delle stoffe li vendevamo a peso. Ebbene capitò un bel giorno che la donna di un gerarca alla quale avevo fatto un abito venne da me trascinandoselo appresso e mi accusò di aver rubato la sua stoffa, due etti di stoffa. Sentii i brividi salirmi lungo la schiena. Dissi alle lavoranti di portarmi i sacchetti con i ritagli. I suoi c’erano ancora. E mi salvai”» [Caruso, Cds 25/4/2015].