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 2019  giugno 11 Martedì calendario

Ritratto di Vettel, fenomeno imperfetto

Il fenomeno imperfetto ha gli occhi chiari e sulla fronte un ricordo dei riccioli che furono. Per la verità, i suoi ricordi sono molti di più. Sono tanti, troppi e sempre meno piacevoli. Come se le cose brutte, nel tempo, avessero non cancellato ma offuscato quelle belle. Il fenomeno imperfetto è un po’ tedesco e un po’ terrone e adesso un po’ incazzato. Vittorie, mondiali, non gli importano più. In segreto, Sebastian Vettel protegge e culla l’unico vero ricordo rimasto incontaminato dal dopo: risale a tanti anni fa, quando era poco più che un ragazzino, in Turchia, a Istanbul, nel 2006, terzo pilota della Bmw. Aveva 19 anni. Un venerdì lo misero in pista e fu subito il più veloce di tutti. Anche di kaiser Schumi suo mito, suo connazionale, suo maestro, suo vicino di casa e di pista e di go kart. Da quel momento in poi anche suo enorme problema. Perché da quel giorno e per sempre presero a paragonarlo al grande e sfortunato tedesco e a volere sempre più da lui. Una condanna per un giovane talento che del grande e sfortunato tedesco non ha mai avuto nulla: né la cattiveria, né la sapiente diplomazia, né la scaltrezza, né la velocità. Ne ha di più. Talento cristallino Sebastian, capace di raggiungere tra il 2009 e il 2013, con la Red Bull, più o meno allora dominante come la Mercedes di oggi, livelli di perfezione assoluta che persino Lewis Hamilton si sognava e talvolta si sogna ancora.
Il fenomeno imperfetto oggi ha la barba e gli occhi tristi. Da quasi cinque anni combatte a stagioni e momenti alterni. A volte vince, spesso perde, talvolta sbaglia, innervosisce, commuove, intenerisce. Soprattutto, espia. Sono sei anni che va avanti così e che la sua immagine viene puntualmente sputtanata. Colpa di una macchina sempre inferiore e colpa di sorpassi sbagliati, manovre sfortunate, incidenti fra compagni, errori di guida. A volte è farina sua, altre no, altre nì. Fatto sta, i tifosi l’hanno da tempo declassato nei loro cuori; persino i ferraristi in fondo sperano che Leclerc vinca presto e che non se ne parli più. 
L’inizio della personalissima via crucis sportiva di Vettel data però 2014, suo ultima stagione con la Red Bull. Per la verità data anche un po’ prima, quando festeggiando sul podio, a Monza e a Singapore, l’anno prima, scoprì di essere l’unico pilota ad essere costantemente fischiato e insultato. «Vuol dire che ho lavorato bene e vinto se mi fischiano...» disse. I fischi dicevano anche altro. Scarso rispetto? Scarso appeal? 
Nel 2014, in Red Bull ci sono lui quattro volte consecutivamente campione del mondo e il neo assunto Ricciardo. Le prime monoposto ibride lo mandano in crisi. A fine stagione il conto delle vittorie a favore dell’australiano sarà di 3 a 0. Sebastian unico caso di pluri iridato costretto ad andare alla Ferrari non perché naturale approdo di ogni vero fuoriclasse ma perché praticamente sfrattato dal proprio team. È solo l’inizio. L’espiazione prosegue nelle stagioni con la Rossa, caratterizzate da vittorie di tappa e, purtroppo e soprattutto, errori di tappa. Al record di unico campione del mondo sfrattato ne seguono così altri. Ad esempio quello, davvero da Guinness, di unico iridato trattato a pesci in faccia da un ragazzino di diciassette anni esordiente nel Circus. Passi che il ragazzino in questione fosse quell’impunito talentuoso di Max Verstappen, ma nel 2016, con un bilancio di quattro titoli mondiali (Vettel) e zero Gp vinti (Verstappen), l’olandesino al volante mandò ripetutamente a quel paese il tedesco. Di più: in Messico, dopo un duello in pista, disse cose del tipo «è stato veramente ridicolo, Vettel è solo un grande frustrato. Farebbe meglio a tornarsene a scuola...».
Non era mai accaduta una cosa simile. Impossibile anche solo immaginare che una matricola delle corse trattasse così un Niki Lauda o un Ayrton Senna o un Alain Prost o un Michael Schumacher... Nella sua ultima stagione in F1, benché fra errori, incidenti, distrazioni e pasticci Schumi fosse ormai diventato solo il lontano ricordo del grande campione di un tempo, nessuno si era mai permesso di mancargli di rispetto. Certo, Michael, in carriera, non si era messo a cantare tatatatatata dopo una pole o Toto Cutugno dopo una vittoria. Come Sebastian a Singapore, anno 2015, «Lasciatemi guidare/perché non sono lento/lasciatemi guidare/una gara bella...». Senza contare la passione di Vettel per i nomi da dare alle monoposto, quasi fossero peluche, da Suzie a Eva, Margherita, Gina, fino all’ultima Lina. Non proprio un’idea carismatica e da cavaliere del rischio. Più da nerd.
La lista di umiliazioni subite da questo campione atipico è lunga. La settimana prima del Gran premio del Canada ad esempio, quando si era parlato a lungo del suo desiderio di ritirarsi. Come se i risultati degli ultimi mesi giustificassero un addio anticipato, come se fosse depresso, triste, avvilito, stanco, senza più la voglia di mettersi in gioco: «Macché, ho una missione da portare a termine qui alla Ferrari...», l’aveva chiusa lì. Ma fino a quando? 
Domande e curiosità e un trattamento che il Circus riserva solo a lui. Forse perché lo sguardo manca di cattiveria, forse perché l’uomo manca di carisma e quando si sbaglia, come a Hockenheim, l’anno scorso, vittoria in pugno, prime gocce e via fuori pista, solo il carisma fa da scudo. O forse perché non è social, perché nonostante sia, dopo Lauda, l’unico straniero arrivato alla Ferrari che davvero si è impegnato a parlare italiano per comunicare con i tifosi, comunque non basta, non va bene, perché lui dopo i Gran premi si chiude in famiglia, ma non come faceva Schumi che con i propri cari si lanciava con il paracadute o nuotava fra le balene, facendo in modo che si parlasse di lui. No, Sebastian proprio sparisce, cura l’orto. E a furia di sparire ha perso l’aura fascinosa di cavaliere a 300 all’ora. Di più: è come se il suo curriculum fosse stato cancellato. Dimenticata la prima vittoria, quella sì incredibile con la Toro Rosso contro tutti i big, Hamilton compreso, nel 2008, a Monza, che all’epoca valeva meno della Haas di oggi. Dimenticata questa e dimenticata la Red Bull presa per mano e portata al primo successo, dimenticati i mondiali a raffica, dimenticato tutto. Non però i processi subiti e le frasi di rimprovero. Come quello causato dalla manovra su Hamilton, a Baku, nel 2017 quando, scocciato per il tira e molla dietro la safety car dell’inglese, lo affiancò e gli sterzò addosso come un automobilista stressato sotto la calura di agosto. Venne processato dalla Fia. E, ovviamente, per rispettare la sua personalissima via crucis, l’audizione venne fissata nel giorno del suo trentesimo compleanno. Come regalo fu costretto a chiedere scusa davanti a tutti. Solo a Vettel poteva capitare una simile disastrosa coincidenza. O come le parole con cui Sergio Marchionne, pochi mesi prima di morire, parlando proprio dei suoi errori in pista, lo etichettò per sempre: «È molto emozionale Sebastian... diciamo che in lui c’è una componente focosa da meridionale, altro che tedesco».
E siamo arrivati a domenica, in Canada. Anche lì, a chi altri potrebbe capitare di lottare come un matto con una macchina buona seppur inferiore e vincere e perdere contemporaneamente? Solo a lui. Al fenomeno imperfetto terrone e focoso. C’è solo da augurarsi che Montreal abbia rappresentato il capolinea di questa sua via crucis. Forse possiamo addirittura sperarlo. Non foss’altro perché per la prima volta da anni, Sebastian si è sentito di nuovo amato. Il pubblico lo ha abbracciato facendo proprio il dispiacere per quella vittoria negata per una decisione troppo fiscale; e la Ferrari l’ha protetto perché all’improvviso ha capito che il futuro non è solo il giovane Leclerc e il talento cristallino del terrone tedesco resta immutato; e i social l’hanno santificato scoprendo, nel gesto semplice e istintivo di questo giovane uomo che sposta il cartello con il numero uno del vincitore dalla piazzola della Mercedes alla propria, che può essere molto più personaggio un uomo tranquillo che si incazza di un carismatico fuoriclasse rapper e tatuato che vince tutto.