il Giornale, 11 giugno 2019
Lunga intervista ad Arrigo Sacchi
Per Chicco Evani, che è stato suo giocatore e suo scudiero, era così avanti che quando guardava indietro vedeva il futuro. Per i romantici che tifano per l’eroe solitario era invece il Diavolo e non solo perché lo allenava. Arrigo Sacchi non è soltanto il padre del calcio di oggi e il creatore di quella che l’Uefa ha battezzato come la squadra di calcio più forte di tutti i tempi (da qui il libro scritto con Luigi Garlando La coppa degli Immortali), ma anche un magnifico anti italiano, amico intimo del lavoro e del merito, amante della bellezza e nemico del furbetto del quartierino, in campo e fuori, per questo come da copione, amato e odiato. Un Rocky italiano: l’anonimo ragioniere di provincia senza passato che arriva sul tetto del mondo. Con la forza della volontà e la tenacia dei sogni.
Arrigo, le spiace non essere stato un cavallo?
«Un cavallo... ?!».
Lo ha detto lei. A chi sosteneva che per essere un buon allenatore bisognava prima essere stato calciatore. Mentre lei...
«Dissi: per fare il fantino non c’è bisogno di essere stati un cavallo. E mai come adesso mi sento di poterlo confermare».
Ecco. Le è mai spiaciuto non essere stato un calciatore, quello che tutti i bambini sognano?
«Ma io ho giocato a calcio...».
Sì, ma nel Baracca Lugo.
«E mi sono ritirato a 19 anni. Ho finito la mia carriera quando gli altri di solito la cominciano».
Vede?
«Ho visto che non ero bravo e ho lasciato perdere. Ma dire che non ho giocato non è vero».
Lei però, il Profeta dell’attacco, giocava in difesa.
«In realtà ho cominciato come ala destra, poi sono passato mediano destro, poi terzino, poi fuori».
Ah, ecco...
«Guardi, una regressione totale».
Ma è vero che nella vita voleva fare l’insegnante?
«Avevo lo spirito dell’insegnante ma non volevo farlo».
E cosa voleva fare?
«Avevo le idee chiarissime: mio padre aveva un calzaturificio e io studiavo ragioneria. Il mio destino doveva essere la fabbrica».
Natale Bianchedi, suo amico e collaboratore diceva: Arrigo da ragazzo aveva una Porsche, una foresta di capelli e la testardaggine di sempre. Ma fare il playboy non era il suo mestiere...
«La foresta di capelli non l’ho mai avuta e di donne non ho mai parlato. La Porsche però l’avevo».
Sua moglie Giovanna, a cui il calcio non è mai piaciuto, diceva che alla domenica lei saltava le partite per stare con lei.
«Vero. Ma perché quando ci siamo fidanzati non ero ancora nel mondo del calcio. Ci siamo conosciuti e sposati in cinque mesi».
È vero che tifava per l’Inter e leggeva il manifesto?
«Leggevo il manifesto, l’Unità, ma anche tutti gli altri giornali. E l’unica Gazzetta dello sport che arrivava in paese era per la mia famiglia».
Gianni Mura la definì un cattolico di sinistra.
«Non ero schierato ma non ho mai sopportato le ingiustizie. Mi sono sempre sentito dalla parte degli ultimi, dei vinti dalla vita».
L’Inter invece?
«All’inizio ero interista, ma non mi piaceva come giocava. Preferivo il calcio olandese, l’Ajax di Cruijff: mi chiedevo perché non potessimo anche noi italiani giocare in quel modo bello e rivoluzionario».
Il milanista di famiglia era suo fratello Gilberto...
«Quando un incidente d’auto se lo portò via aveva 27 anni e io 23. Tante volte ho pensato, quando abbiamo vinto coppe e scudetti, quanto sarebbe stato felice, per me e per il suo Milan».
Anni fa l’hanno premiata come cristiano dell’anno.
«Sono cattolico e credente. Prego ogni sera perché non ci siano guerre nel mondo, prego per un mondo migliore, prego perché mi dia la forza di fare del bene. Purtroppo non siamo all’altezza delle nostre preghiere, io per primo. Non siamo generosi come dovremmo».
È vero che sempre da ragazzo organizzava cineforum tipo Corazzata Potemkin?
«La Corazzata Potemkin, M – il Mostro di Dusseldorf di Fritz Lang, la Dolce vita. Vedevo due film al giorno. Andavo a Bologna e passavo le mie giornate al cinema».
E che le piaceva Kim Novak...
«Ah, bellissima donna. Bionda, algida, misteriosa».
Dopo i mondiali americani di calcio le offrirono veramente di fare un film a Hollywood?
«Come no. Dissi a mia moglie: se c’è Sharon Stone però ci vado...».
Ma non era Kim Basinger?
«Può anche essere...».
Che personaggio avreste dovuto interpretare: l’Ethan Hunt di Mission impossible, il capitano Ben Allison degli Implacabili...
«Veramente, nel film avrei dovuto fare l’allenatore...».
Ah, ma allora è un’ossessione.
«Pavese diceva non c’è arte senza ossessione. Io dicevo ai miei giocatori: non so se c’è arte in quello che faccio, ma l’ossessione c’è di sicuro».
Com’è finito a fare l’allenatore?
«Facevo il dirigente del Fusignano, mi ero sposato, lavoravo con il mio babbo. Avevo 27 anni e mi sono detto: perché non giocare ancora un po’? Ma l’allenatore che doveva arrivare non arrivò mai e Natale Bianchedi, il direttore sportivo mi disse: Perché non lo fai tu?».
Per puro caso, quindi?
«Ero scettico, invece quella era l’occasione che stavo aspettando».
Come ha deciso di cambiare vita?
«Avevo trent’anni, ero sposato da quattro, ero già padre. Tornai a casa e dissi a mia moglie: ho deciso. Lascio l’ufficio e faccio solo l’allenatore. La squadra era l’Alfonsine, mi pagavano 250mila lire, lo stipendio di un operaio».
Lei disse: la mia Romagna è una terra di autodidatti e di pionieri che mi fa venire in mente il West. Sente di somigliarle?
«Io in realtà, come diceva Brera, sono un mezzosangue. Mio padre era di Mandello del Lario, la romagnola era mamma. Sono nato qui perché lei non ha mai voluto spostarsi da Fusignano. Sono double face».
È vero che una volta lasciò fuori un suo amico dalla squadra e che questo provocò una rottura tra le vostre due famiglie?
«Verissimo. Ma le scelte sono scelte. Avevo in squadra un portiere che aveva tredici anni più di me. Non era facile imporsi».
E vero che ha cominciato perdendo sei partite di fila?
«Non ricordo se fossero proprio sei comunque erano tante».
E perché non l’hanno esonerata?
«Perché non costavo nulla. E alla società davo pure qualche soldo. Io non sono mai stato esonerato, sono sempre stato io ad andare via».
Come in Nazionale. È vero che disse: è un’esperienza che con il senno di poi non farei più?
«No, questo non è vero. Le esperienze sono tutte importanti e questa è stata una grande esperienza ma difficile. Allenare una nazionale non è come allenare un club, non lavori tutti i giorni con i tuoi giocatori: la sensazione era quella di un eunuco in un harem di belle donne».
Sostituì Baggio e lui le diede del matto. Com’è finita poi?
«Con Roby nessun problema, abbiamo fatto uno spot pubblicitario insieme subito dopo il mondiale. Ma mi faccia dire».
Dica
«L’allenatore deve prendere delle decisioni. Baggio era il Pallone d’oro e forse pensava che io fossi il suo allenatore ma io ero l’allenatore dell’Italia, non il suo. E se ho un pregio che è anche un difetto è che sono una persona onesta».
Lo sostituirebbe di nuovo?
«Giocavamo in dieci contro undici, faceva un caldo tremendo, ci volevano fisici fuori dal normale. E vincemmo uno a zero con gol di Baggio. Dino però...».
Cosa le disse Roby Baggio?
«Mi chiese: avresti sostituito anche Maradona? Gli risposi che Maradona non lo avevo mai allenato ma Gullit e Van Basten sì, e avevo sostituito entrambi. Non erano certo meno campioni di Diego».
Il calcio somiglia all’Italia?
«In Italia il calcio è esattamente lo specchio della vita e della storia del nostro Paese. Ho fatto fatica a fare correre le mie squadre perché è dai tempi dei romani che noi corriamo all’indietro. L’unica volta che abbiamo vinto una guerra è perché abbiamo giocato in contropiede. Lì persi due zii, uno aveva 19 anni, l’altro 22: li mandavano allo sbaraglio».
E nella seconda guerra mondiale?
«Stessa cosa, sempre quell’idea di essere più furbi degli altri, di poter approfittare delle situazioni. Mussolini sapeva benissimo che non eravamo pronti per combattere una guerra, i generali lo avevano informato. E lui: ma non avete capito che tra tre mesi è finito tutto e chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto? Guardi, le racconto un episodio mio personale».
Racconti
«Ero un bambino, avevo 11 anni e il mio babbo mi portava in giro per l’Europa a trovare i nostri clienti. In Germania mi accorgo che i nostri fanno i lavori più umili, camerieri, operai, minatori. Si spaccavano la schiena, lavoravano duro. E i tedeschi viaggiavano in Volvo e Mercedes. Dissi: papà, ma noi siamo i furbi e loro sono i crucchi? Perché lì la furbizia non pagava veramente nulla. E da allora che io sto sempre molto attento ai furbi: mai amato questo tipo di italiano».
Si sente un italiano atipico?
«Io ho sempre voluto bene all’Italia anche se ne conosco i pregi e i molti difetti. Non sopportavo che Brera dicesse che non potevamo competere con inglesi o tedeschi perché noi mangiavamo polenta e pasta e loro carne. Pensavo: ma come? Custodiamo la bellezza del pianeta, abbiamo avuto campioni della fatica come Pamich e Dordoni e non possiamo competere con gli altri? È questione di testa non di fisico: io non ho mai pensato che il calcio nascesse dai piedi, ma dal cervello».
Cosa non le piace dell’italiano?
«Abbiamo questa brutta abitudine di volere prendere sempre una scorciatoia. Invece per arrivare ci vuole impegno, costanza, lavoro. Così invece riduciamo il tutto al niente».
L’Italia è anche un Paese che non fa squadra?
«Faccio convention alle aziende da vent’anni e lo vedo. È un fatto culturale: è un Paese che non gioca insieme, che non ha un obiettivo comune, dove ognuno gioca per sé. Pensi che siamo penultimi nel mondo per le iscrizioni all’università e nel calcio è uguale. Quando ho fatto il supercorso nel 1978 durava un anno. Oggi sa quanto dura?».
Proprio no...
«Trentadue giorni e le presenze sono facoltative per cui molti non ci vanno neanche. Uno schiaffo alla cultura: senza cultura ci può essere solo ignoranza e quando c’è ignoranza si ha paura di tutto e di tutti. Soprattutto del cambiamento».
Per questo forse si è trovato subito in sintonia con Berlusconi.
«Berlusconi ha una grandezza naturale e io gli devo molto, soprattutto il fatto di avere sempre creduto in me quando avevo tutti contro. Con lui il primo anno firmai in bianco: dissi a lui e a Galliani, o siete dei geni o siete dei folli in ogni caso vi devo venire incontro. Siamo andati oltre la missione: volevamo diventare la squadra più forte del mondo, siamo diventati la squadra più forte di tutti i tempi».
Berlusconi la voleva persino ministro dello Sport...
«Quando partimmo per il mondiale era consuetudine che la nazionale prima di partire andasse dal premier. Ci davamo ancora del lei, adesso ci diamo del tu. Avevo fatto sei finali internazionali e le avevo vinte tutte. Mi disse: se vince anche questa la faccio ministro dello Sport. Gli risposi: ma se non esiste nemmeno il ministero dello Sport?».
E lui?
«Be’, lo creiamo».
Bastava tirare dentro un rigore ed era fatta.
«Dissi: Dottore se la mia è un’impresa difficile la sua è impossibile. Perché l’italiano ha il senso della nazione ma non quello dello Stato...».