Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  giugno 11 Martedì calendario

Terremoti, la verità dell’acqua

L’acqua parla prima che la terra tremi. Per qualche giorno, settimane, mesi. Si riempie di anidride carbonica, di metalli e metalloidi che prima non possedeva. Si acidifica. I terremoti si possono prevedere? Se qualche anno fa la risposta era uno dei grandi «no» della scienza, ora quella negazione assoluta sta virando verso un «sì», nel tempo. C’è una versione dell’acqua da ascoltare. «Ci stiamo lavorando», dicono i ricercatori capifila di quello che hanno chiamato il «Sacro Graal di tutti i geologi», ovvero la previsione dei terremoti.
È una squadra di sette persone che gestisce campioni d’acqua in un laboratorio del dipartimento di scienze della terra dell’università La Sapienza, e che una volta al mese monitora dodici sorgenti in due zone dell’Italia centro-meridionale: la piana di Sulmona e l’area del matese-beneventano. L’acqua sta iniziando a raccontare una storia ancora da decifrare nella sua interezza, ma che offre quantomeno indizi, punti di partenza. E loro sono coloro i quali la «ascoltano».
TUTTO È INIZIATO...
Li incontriamo in una delle stanze del dipartimento di scienze della terra dell’università La Sapienza. L’ispirazione, raccontano Andrea Billi, primo ricercatore del Cnr, Maurizio Barbieri, professore di geochimica ambientale e Domenico Barberio che sta svolgendo un post-dottorato, sono stati alcuni studi islandesi degli scorsi anni che parlavano di variazioni nella composizione chimica dell’acqua in correlazione con alcuni grandi terremoti. La prima scintilla nel dipartimento l’ha accesa Barberio, che a fine 2015 doveva iniziare a scrivere la sua tesi di dottorato con il professore Marco Petitta. Decise di monitorare alcune sorgenti della piana di Sulmona per verificare se i cambiamenti di alcuni parametri geochimici potessero anticipare fenomeni sismici. 
«Ad aprile del 2016, dopo quattro mesi di monitoraggio, i valori di arsenico, vanadio e ferro si impennarono, fino a venti volte. Il 24 agosto ci fu il terremoto di Amatrice». Il cromo salì più a ridosso del sisma. Tutto, da quel momento, cambiò. Quei valori sono stati come l’inizio di un lungo codice da decriptare. Il lavoro del dottorando e del suo professore è stato affiancato da quello di Billi e Barbieri e si è incrociato con le idee del professore Carlo Doglioni, ora a capo dell’Ingv, l’Istituto di geofisica e vulcanologia: deformazioni e fratture nel cuore della terra possono scatenare una fuga di anidride carbonica che precede il flusso di alcuni metalli, normalmente presenti nelle rocce a strati profondi. 
Acidità dell’acqua e variazioni geochimiche sono stati fin da questo primo, eclatante caso, le registrazioni più significative. Lo studio è stato supportato da un modello e i risultati sono stati pubblicati su una delle principali riviste scientifiche del mondo, Scientific reports. Al gruppo di lavoro si sono aggiunti una dottoranda e un laureando. Si è formata insomma la squadra dell’acqua. 
Il monitoraggio delle fonti è diventato sistematico. Grazie a un finanziamento dell’Ania, l’associazione delle imprese assicuratrici, i rilievi sulle sette fonti nella zona di Sulmona-Popoli sono stati estesi ad altre cinque sorgenti nel beneventano. In una sorgente della piana di Sulmona sono stati installati sensori per il rilevamento nell’acqua di Co2 e radon (altro possibile precursore sismico), possibili precursori sismici. È stata avviata una collaborazione proprio con gli islandesi, «che ci hanno inviato addirittura tutti i campioni raccolti in dieci anni, per l’analisi sui microelementi». L’ipotesi condivisa è che dalle fratture della crosta terrestre si aprano canali da cui possano risalire fluidi profondi «che vanno a inquinare in qualche maniera le falde più superficiali che noi andiamo a intercettare».
LE SORGENTI CHE PARLANO
La piana di Sulmona ha «un contesto idrogeologico molto ben conosciuto», spiega Barbieri. Se ne conoscono piuttosto bene i tragitti profondi. Dalla ricerca del 2016 risultò che i valori anomali dei tre metalli e dell’arsenico scesero lentamente fino a dicembre, ma con una risalita alcuni giorni precedenti la scossa del 30 ottobre di Norcia. Da gennaio del 2017 si sono stabilizzati tornando su livelli normali. Più recentemente i ricercatori hanno assistito a un nuovo, sorprendente fenomeno: intorno alla fine di novembre, sempre nella piana di Sulmona, le analisi sull’acqua di una sorgente hanno mostrato una variazione dei livelli di litio e di boro, che sono raddoppiati. L’1 gennaio si è verificato un terremoto del 4.1 nell’area del Fucino, in corrispondenza della faglia di Avezzano. La pubblicazione è in corso d’opera. 
«È chiaro», premette Billi, «che non siamo ancora in grado di dare un allarme. Non facciamo un lavoro di Protezione civile, ma di ricerca». Sarebbe necessaria una rete di sorgenti monitorate. Dodici in due sole aree sono troppo poche per rispondere a tre problemi: il primo è la differenza dei precursori, legata alla «specificità delle rocce che sono presenti nel sottosuolo». Nel caso dell’ultimo terremoto abruzzese dell’1 gennaio, gli elementi chimici anomali sono stati litio e boro, differenti da quelli segnalati prima di Amatrice. 
QUESTIONI DI RETE
L’altro problema è il tempo, ossia la distanza tra le variazioni dell’acqua e l’evento sismico. Sinora il margine è stato abbastanza ampio, alcuni mesi o settimane, raramente alcuni giorni. «L’altro problema è lo spazio», ovvero a che distanza dalla sorgente che «parla» potrebbe verificarsi un terremoto. «Le sorgenti di Popoli Sulmona si trovavano a circa 70-80 chilometri dall’epicentro del terremoto di Amatrice. Una rete è dunque necessaria per iniziare a «circoscrivere un’area di pericolo». Anche nel caso dei rilievi islandesi le variazioni di concentrazione sono state registrate nel litio e nel boro. Nel 2014 alcuni giorni prima di alcuni fenomeni sismici che precedettero un’eruzione i valori subirono prima una flessione, e poi un rialzo. 
Oltre al monitoraggio sulle sorgenti, vengono raccolti dati su un pozzo che va a captare la falda regionale della zona di Sulmona. Qui i ricercatori hanno osservato un innalzamento del livello dell’acqua «anche di uno o due centimetri», in occasione di grandi terremoti di altri continenti, come quello del Cile del 2016. «Questa è una scienza giovane ma credo che sia molto promettente», torna a spiegare Billi. «Se pensiamo che nel 1980 quando ci fu il terremoto dell’Irpinia tutti andarono a Napoli pensando che lì ci fossero stati i danni maggiori. In Irpinia si erano interrotte le linee di comunicazione e non esisteva una rete sismica. Ora in ogni momento sappiamo dove si è verificato il terremoto». 
Lo studio dell’acqua di un manipolo di pionieri potrebbe diventare un’attività sistematica solo grazie a una rete. Basta la volontà.