La Stampa, 11 giugno 2019
Al Festival di Pentecoste di Cecilia Bartoli
La palma di baroccari più sciroccati va ai due francesi che si sono appalesati a Salisburgo indossando delle polo «ad hoc», con la scritta che riproduce la celebre, blasfema esclamazione di una lady londinese del Settecento, «One God, one Farinelli!» e il suo aggiornamento al XXI secolo: «One God, one Bartoli!».
Cose che capitano (per fortuna?) solo qui, al Festival di Pentecoste, one-woman-show della vulcanica direttrice artistica (riconfermata a furor di botteghino fino al 2026), primadonna, animatrice e papessa, Cecilia Bartoli. E forse, con tutto il gran parlare di quote rosa e di Italia in Europa (o fuori) che si fa, bisogna riflettere sulla circostanza che qui vince una donna italiana senza tante chiacchiere o proclami, ma con la sola forza del talento.
Intanto, Pentecoste all’insegna di castrati e dintorni, piatto forte una nuova produzione di Alcina di Händel. Intorno, il solito ricco contorno barocco di varie ed eventuali. Il Polifemo di Porpora, francamente non indispensabile, è stato proposto in una forma semiscenica che ha fatto rimpiangere il concerto tout court ma musicalmente era buono, grazie alla direzione di George Petrou e a un sopranista assai interessante, Yuriy Mynenko. Invece è affascinante l’oratorio La morte d’Abel, perché i versi di Metastasio sono già musica da soli e quella di Caldara, sorprendente, ha una densità contrappuntistica si direbbe bachiana: appassionata e ottima, per inciso, l’esecuzione diretta da Gianluca Capuano. Il grande show è arrivato con il gran galà barocco e un po’ baraccone intitolato Farinelli & friends, aperto dalla Bartoli (in tenuta da castrato per sfidare oboe e tromba nell’Amadigi di Gaula di Händel) e proseguito con una serie infinita di arie e duetti cantati di molti dei soliti più noti della movida della musica «antica». Insomma, un concertone lirico dove invece che «Nessun dorma» e «Vissi d’arte» ci si è spolmonati su Hasse o Porpora o Albinoni, mentre un pubblico di coltissimi o di folli o di coltissimi folli applaudiva trilli e messe di voce come fossero do di petto e si accalorava sui meriti storici del Senesino o di Carestini e su quelli attuali dei controtenori Philippe Jaroussky e Christophe Dumaux, tutta un’esegesi del trillo. Certo: in tre giorni si sono sentite tante arie tripartite che anche al ristorante veniva da ripetere daccapo la comanda al cameriere...
Poi, appunto, Alcina. E qui, spettacolo capolavoro, degno di entrare nella trilogia delle migliori produzioni di quest’opera insieme al Carsen di Parigi e alla Mitchell di Aix. Perché Damiano Michieletto non si sottrae all’appuntamento con la Zauberoper, con relativi prodigi scenotecnici di Paolo Fantin, più mago di Melisso, ma ci mette una finezza psicologica e una compiutezza di recitazione straordinarie. Perché lo Stakanov del Festival, Capuano, dirige la stupenda partitura con una fantasia di dinamiche, di sfumature, di senso teatrale semplicemente memorabili, e tuttavia senza cadere in eccessi ba-rock. Perché i Musiciens du Prince suonano «storicamente informati» ma con un nitore e una ricchezza di colori da orchestra «moderna». Perché la compagnia è quasi perfetta (Jaroussky, Sandrine Piau, Kristina Hammarström) e in ogni caso lo spettacolo è talmente bello che canta bene anche chi canta male (tenore e basso, impossibili).
E poi perché c’è lei. La parte di Alcina è tutta lirica, per nulla funambolica. E allora Santa Cecilia delle colorature diventa Santa Cecilia dei pianissimi, capace come nessuna di dilatare e sospendere il tempo in lamenti che si avvitano ipnotici su loro stessi. Mai come stavolta si è capito che il vero soggetto di questo capolavoro vertiginoso e mortifero è la fine delle illusioni e degli autoinganni, il tempo che passa e la felicità che fugge. Paradossalmente, è quando va in frantumi lo specchio magico di Alcina, e Fantin riempie la scena di frammenti di vetro, mentre l’orchestra di Capuano incalza il canto disperato della Bartoli che Michieletto fa adagiare sulla scena, improvvisamente invecchiata, delusa, sconfitta, lo specchio del teatro torna intatto, e davanti ci siamo noi. La vera magia è che Ariosto e Händel e la grande illusione dell’opera ci raccontano come nessuno sa e può. E si piange non di commozione estetica, ma di noi stessi, svelati da questa fiction più vera del vero per quello che siamo, non per quello che vorremmo essere.