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 2019  giugno 11 Martedì calendario

Intervista a Chiara Casarin

L’ispirazione gliel’ha data Antonio Canova. E anche un trompe-l’oeil conservato nel Museo Nazionale di Copenaghen, in cui Cornelius Norbertus Gijsbrechts, pittore di Anversa, nel 1670 raffigurò il retro di un dipinto sul davanti di una tela: ordito del tessuto, venature del telaio di legno, ombre create dallo spessore delle assi, chiodi, cartellino dell’inventario. Nessuno, prima di Chiara Casarin, aveva mai organizzato una mostra all’incontrario, esponendo, anziché il recto, il verso di 110 quadri, fatto di abbozzi, dipinti, note degli autori, dediche, etichette, attestati di proprietà, ritagli di giornale. 
Dopo aver scoperto con Abscondita il lato B dell’arte, la direttrice dei Musei Civici di Bassano del Grappa ora è in grado di svelarne anche il lato demenziale: uno stupro inaudito compiuto 50 anni fa. «Uno dei miei predecessori, Bruno Passamani, fece a pezzi con la motosega un cavallo senza cavaliere, alto 4 metri e mezzo e lungo 5», spiega Casarin, che ha recuperato i resti dimenticati nei depositi del museo e ha lavorato tre anni per ricomporli. «Diceva che era troppo grande, che sembrava un esercizio di stile non particolarmente bello». Strano, giacché la scultura in gesso fu scolpita dal «nuovo Fidia», quel Canova, vicentino di Possagno, che fra Settecento e Ottocento conquistò la fama con i monumenti funerari ai papi Clemente XIII e Clemente XIV nella basilica di San Pietro, a Maria Cristina d’Austria e a Vittorio Alfieri, con le statue di Napoleone e Paolina Borghese, con i soggetti mitologici come Amore e Psiche, custodito al Louvre. 
Mai sentito di un direttore di museo che disbosca l’arte. 
«Il monumento equestre di Canova, risalente al 1821, avrebbe dovuto celebrare Ferdinando IV di Borbone. Passamani ebbe dalla soprintendenza il permesso di smontarlo. Invece lo dissezionò con la motosega, distruggendo grandi pezzi in gesso e deformando la struttura interna in ferro. Ciò impediva la ricostruzione dell’opera. Abbiamo scansionato tridimensionalmente tutti i frammenti, poi ricomposti in un restauro digitale. Ne è venuto fuori un modellino di bronzo, in scala. Ora il progetto è di arrivare a una fusione in grandezza naturale». 
Che scopo aveva il gesto dissennato? 
«Secondo Passamani, il cavallo toglieva spazio alle altre opere di Canova». 
Ce ne sono tante in questo museo? 
«Tantissime: 60 gessi, 23 dipinti monocromi, la Testa di Medusa in bronzo, i bozzetti in terracotta delle Tre Grazie, oggi all’Ermitage di San Pietroburgo, e della Maddalena penitente che si trova nel Palazzo Doria Tursi di Genova, entrambi recanti le impronte digitali di Canova. E quasi 2.000 disegni, cioè il 99 per cento di ciò che realizzò, 8 taccuini di viaggio, lo scalpello, il pennino, il timbro a secco, un epistolario con 6.679 lettere. Il tutto donato dal fratellastro, monsignor Giovanni Battista Sartori Canova». 
Un Canova double face è anche all’0rigine della sua passione per il lato B. 
«L’avventura iniziò nel 2017. Riallestendo il salone a lui dedicato, vidi sul retro del Mercato degli amorini, fine Settecento, cinque danzatrici di un’eleganza che non aveva nulla da invidiare al monocromo del lato esposto al pubblico. Cominciai a girare tutte le opere». 
E quali altre sorprese ebbe? 
«Dietro il Trasporto a terra della salma di Orazio Nelson, sempre del Canova, trovai una figura maschile nell’atto di essere incoronata. Dietro il Ritratto di vecchio di Pietro Roversi vi era un Cristo crocifisso, capovolto a testa in giù. Dietro la maggior parte delle opere di Mario Sironi, un corpus formato da 90 disegni e una tavola, c’erano dipinti e bozzetti da creare imbarazzo nella scelta al momento di esporli: quale lato incorniciare? La mostra Abscondita è nata così». 
È ripetibile in qualche altro museo? 
«Una richiesta mi è giunta dalla Pinacoteca di Brera, ma i miei impegni finora mi hanno impedito di andare a rivoltare le tele della collezione milanese». 
Fino al 30 settembre qui espone le 214 incisioni di Albrecht Dürer donate da Giovanni Battista Remondini. C’è qualcosa di bello anche sul retro di quelle? 
«Sì. Dietro i quattro cavalieri dell’Apocalisse, per esempio, è scritto a mano il testo di san Giovanni Evangelista». 
Come definirebbe il lato B? 
«Il curriculum dell’opera. Io vorrei che conservasse le tracce di tutto ciò che le è accaduto: nome del committente, date dei restauri, passaggi di proprietà, donazioni, luoghi di acquisto, mostre». 
Servirebbero quadri molto grandi. 
«O etichette molto piccole. Spesso nei restauri queste tracce venivano cancellate. Qui abbiamo un intero salone dedicato a Jacopo da Ponte, detto il Bassano. In Abscondita ho esposto un’opera di Leandro, terzo dei suoi quattro figli maschi, tutti pittori come il padre, proprio per dimostrare questa sistematica rimozione: dietro non c’è nulla di nulla». 
Ma perché dipingere sul retro? Non sarebbe stato più logico per un artista usare un’altra tela? 
«Due spiegazioni: o era talmente povero da non potersela permettere o voleva dare un doppio messaggio. Nella pittura fiamminga veniva dipinta una natura morta sul fronte e una donna nuda sul retro, così il nobile sceglieva da che parte girare il quadro appeso in camera». 
Chi calcola il valore del lato B di un dipinto, ammesso che ce l’abbia? 
«È inscindibile dal valore del lato A. Lo aumenta, questo è sicuro». 
Le attribuiscono la seguente frase: «Ho scelto di lavorare solo con le belle persone». Me la vuole spiegare? 
«Le persone competenti sono tante. Io preferisco quelle sincere, che agiscono con il cuore oltre che con la testa». 
Non ne trova tante. 
«No». 
I suoi nonni Riccardo e Marcella erano belle persone, almeno a giudicare da come li descrisse Giovanni Comisso nel libro «La mia casa in campagna». Promisero di giungere illibati al matrimonio e per questo ebbero in premio 400 lire dalla facoltosa signora presso cui la nonna prestava servizio. 
«Non voglio che lo scriva. Mio padre è molto timido e si dispiace nel leggere queste cose intime dei suoi genitori». 
Chissà chi avrà verificato la verginità dei nubendi al momento delle nozze. 
(Ride). «Non so. La nonna non fece in tempo a raccontarmelo: morì a 63 anni, quando io ne avevo solo 3. L’unica cosa certa è che lo scrittore trevigiano era amico di mio nonno Riccardo Attilio». 
Come si è avvicinata all’arte? 
«A 6 anni, visitando i Musei Civici di Venezia e poi molti altri in giro per il mondo, a cominciare dal Guggenheim di New York, quello che amo di più in assoluto. Mi ci portava mio padre Nello, appassionato di arte e di cultura classica. Ho vissuto quattro anni a Parigi per il dottorato di ricerca all’École des hautes études en sciences sociales. Attraversavo il Louvre per raggiungere la facoltà. Siccome gli studenti avevano l’accesso gratuito, all’andata o al ritorno mi fermavo sempre per vedere qualcosa. Ho passato lì dentro non meno di 200 giorni». 
È un primato ragguardevole. 
«Un giorno su sette sono in un museo, altri quattro fra gallerie e studi di artista. La settimana scorsa sono stata alla Biennale di Venezia da martedì a sabato, dalle 10 alle 22. Non è solo lavoro. È anche una grande passione. Anzi, posso dire di non aver mai lavorato in vita mia. Nel tempo libero mi occupo unicamente di arte». 
Perché in questo sacrario di Canova ha portato una mostra su Valentina, il personaggio del fumettista Guido Crepax? Non è stata un po’ una profanazione? 
«Ne ho portata anche una su Nicoletta Costa, la creatrice di Giulio Coniglio. E un’altra su Robert Capa, il più grande fotoreporter di guerra. Questo perché ospitiamo la Biennale di incisione e grafica contemporanea, giunta alla sesta edizione. È stata inaugurata da pochi giorni, chiuderà il 19 agosto. E a Bassano si tiene anche la Biennale di fotografia». 
Che cos’è l’arte? 
«Qualsiasi risposta sarebbe sbagliata. È tutto ed è in tutto. A me serve a vivere, ad altri non serve a niente. A molti serve persino a guarire, visto che Emergency si finanzia con le sue bellissime esposizioni veneziane alla Giudecca». 
«La Gioconda» di Leonardo o «La Pietà» di Michelangelo mettono d’accordo il mondo intero. Gli squali di Damien Hirst no. Come lo spiega? 
«Ha altre cinque o sei ore di tempo? Se non le ha, non comincio neppure». 
Non le ho. Però faccia uno sforzo. 
«È una domanda che ci poniamo da più di un secolo, da quando Marcel Duchamp espose lo scolabottiglie. Prima era chiaro che cosa fosse, oggi no. La domanda non è sbagliata, ma è posta male. Bisogna chiedersi: quando è arte?». 
Nell’arte qualsiasi provocazione è ammessa? Anche il crocifisso immerso nell’urina di Andres Serrano? 
«Qualsiasi riflessione. Le provocazioni appartengono a tutti i linguaggi umani. Fra questi, l’arte è l’unico libero, privo di regole. Ecco perché spesso fa paura». 
C’è un’opera che la manda in estasi? 
«La prima estasi la provai da bambina al Museo Correr di Venezia. Sono bulimica. Se potessi, mi comprerei qualcosa di Jannis Kounellis. Ma il mio sogno è diventare un’altra Peggy Guggenheim». 
Ralph Waldo Emerson sosteneva che il talento da solo non basta a fare uno scrittore: dietro al libro ci deve essere un uomo. E dietro a un quadro? 
«Tobia Scarpa, figlio di Carlo, il grande architetto, mi ha detto: “Il 3 per cento è talento, il 97 per cento è lavoro”». 
Il suo lato nascosto qual è? 
«Non ho segreti, mi dispiace. Non so disegnare neppure una margherita. Mia figlia sì è un’opera d’arte. L’unica».