Corriere della Sera, 11 giugno 2019
I timori di uscita dall’euro costano 1,5 miliardi l’anno
Oltre duemila scuole in più aperte ogni anno, magari nelle aree interne dove oggi i ragazzi si abituano a prendere il bus all’alba con l’inizio delle medie. O un aumento di un terzo dell’investimento pubblico in ricerca di base, in modo che migliaia di giovani con un dottorato non debbano andarsene ogni anno all’estero per continuare a studiare. Oppure un aumento da poco meno 1.700 euro all’anno per i 900 mila dipendenti dell’istruzione pubblica il cui stipendio medio, incredibilmente, è persino sceso in valori assoluti dal 2008 a oggi.
Quanto si potrebbe realizzare, se l’Italia non dovesse trasportare un fantasma sulle spalle. Se non ci fosse quel peso, si libererebbero rapidamente risorse per almeno un miliardo e mezzo. Tutti gli anni, senza dover stringere di un millimetro la cinghia né per alzare le tasse né tagliare altre voci di spesa. Invece il fantasma resta aggrappato addosso al Paese.
I tecnici lo chiamano «rischio di ridenominazione»: il sospetto, diffuso fra i suoi creditori, che la Repubblica italiana nei prossimi sessanta mesi finisca per uscire dall’euro e tenti di rimborsare quasi tutti gli investitori in deprezzatissime «nuove» lire. Come ogni presentimento – corretto o sbagliato – anche questo è alimentato dai programmi elettorali di entrambi i partiti di governo, poi da una bozza di contratto fra loro, poi messa da parte nella versione definitiva; in seguito quel fantasma è stato tenuto in vita da persone o atti che non sempre dichiarano i propri obiettivi. Ultimo in ordine di tempo, i mini-Bot. Secondo l’autore della proposta Claudio Borghi, presidente leghista della commissione Bilancio alla Camera, con quei titoli di Stato di piccolissimo taglio si dovrebbero «pagare» i fornitori delle amministrazioni. Eppure proprio la legge di Bilancio di questo governo permette a Cassa depositi e prestiti di fornire liquidità illimitata (in euro, non in carta di dubbio status legale) agli enti che devono saldare dei debiti commerciali certificati.
Dunque i mini-Bot, immaginati da Borghi di aspetto simile a banconote, non sono credibili nel loro scopo asserito. Osservatori e investitori in tutto ne hanno concluso che la risoluzione parlamentare che li auspica, in modo sorprendentemente bipartizan, ha un obiettivo diverso: avviare una sorta di moneta parallela per preparare il Paese all’euro-exit, o minacciare Bruxelles con quest’opzione nucleare ora che una procedura sul debito è molto vicina.
E qui entrano in gioco il fantasma aggrappato al Paese, e i suoi costi. Sociali, non solo finanziari. Perché non è chiaro quanto gravi in interessi sul debito – dunque in oneri per i contribuenti – quel sospetto di secessione monetaria che viene fatto serpeggiare nella maggioranza. Chi compra titoli di Stato senza la certezza di poter essere rimborsato in euro – magari lo sarà in una nuova moneta debole – esige infatti rendimenti più alti per compensare quel rischio. Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, il 31 maggio ha detto che quel timore sta tenendo il costo del debito più alto di quanto sarebbe giustificato.
Ma di quanto? Aiuta a capire qualcosa di più il confronto con la Spagna, che da circa un anno paga interessi molto più bassi dell’Italia (vedi grafico). Circolano infatti sul mercato alcuni titoli derivati di due categorie simili ma diverse fra loro: i primi assicurano il sottoscrittore contro l’insolvenza di un Paese, i secondi anche contro l’ipotesi di uscita dall’euro. Questi ultimi offrono un ombrello più largo, come fossero una polizza contro furto e incendio e non solo contro il furto. La differenza nei premi da pagare per ottenere la copertura dei due diversi contratti assicurativi (Cds 2003 e Cds 2014) rivela quanto probabile è, per gli investitori, che un Paese esca dall’euro in futuro. Quello scarto di costo ieri era di 0,18% per la Spagna e 0,91% per l’Italia, su un arco di cinque anni.
Significa che circa metà dell’enorme ritardo attuale di Roma su Madrid nell’onere per piazzare il debito ai creditori non è dato dai timori sui conti: le due economie hanno punti di forza e debolezza diversi. Metà di quello scarto, o spread, è dato dal timore che l’Italia torni alla lira. Dunque se il governo di Roma offrisse le stesse certezze di voler restare nell’euro che dà Madrid solo nel 2019 pagherebbe 1,5 miliardi di interessi in meno sul nuovo debito che emette. Il conto si accumula poi di anno in anno. Ma già in questo si libererebbero risorse per far crescere di un quinto l’investimento in università o dare lavoro a 50 mila nuovi insegnanti. E solo chi gioca con il futuro dell’Italia nell’euro sa esattamente perché non succede.