La Stampa, 10 giugno 2019
I militari hanno tradito il Sudan
Il Sudan è un Paese vasto e sommariamente unificato. Dal dicembre scorso è teatro di proteste popolari che l’11 aprile hanno portato alle dimissioni del presidente Omar al-Bashir, al potere dal 1989. È un dittatore che non ha fatto nulla per la sua nazione, vicino alla Fratellanza Musulmana e al Qatar. Il 16 aprile è stato imprigionato con l’accusa di aver fatto uccidere dei manifestanti.
Quella che è stata definita la rivoluzione del popolo sudanese è partita da Atbara, una città nel Nord, il 19 dicembre 2018. C’erano molte speranze. I manifestanti erano ben organizzati e composti.
Il 13 aprile, una giunta militare ha preso il potere dopo aver negoziato una transizione pacifica di tre anni con i manifestanti. Negoziati confusi. Promesse da parte dei generali e niente di concreto. Ma i rappresentanti dei partiti, dei sindacati e delle altre associazioni restano pronti e e vigili.
Il 25 aprile, oltre un milione di persone era sceso in piazza a Khartoum. Soffiava un’aria da «primavera araba» su questo risveglio di un popolo che da decenni vive l’oppressione della dittatura e delle continue guerre tribali.
All’inizio, sia l’esercito sia la polizia davano l’impressione di comprendere la rabbia popolare e in qualche modo di assecondare questo tentativo di rivoluzione.
Il ruolo delle donne
Ma ben presto, probabilmente sotto la pressione dell’Egitto, dell’Arabia Saudita e degli Emirati, (che hanno inviato all’esercito dei carri armati) hanno usato le armi per disperdere i sempre più numerosi manifestanti. Le donne erano le più battagliere. Questa rabbia si è rapidamente diffusa tra le diverse componenti della società multietnica del Sudan. I cristiani del Sud hanno partecipato a questa «primavera» sapendo di condividerla con gli islamisti che difendono l’applicazione della sharia (duro dogma musulmano).
La guerra civile
Va ricordato che in Sudan dal 1983 al 2005 c’è stata la guerra civile. Nel 2003, in Darfur, nell’Ovest del Paese, una guerra spietata ha contrapposto le tribù Janjaweed (arabe) a quelle africane non arabofone. All’origine di questi scontri feroci la siccità e la carestia. Le Nazioni Unite hanno contato 300 mila morti e hanno accusato il governo di Khartoum di genocidio. Per questo, Omar al-Bashir è stato condannato dal Tribunale penale internazionale per «crimini contro l’umanità». Dal 2011, il Sud, principalmente cristiano e dove si trovano la maggior parte dei pozzi petroliferi, è stato dichiarato indipendente.
La costituzione garantisce la libertà religiosa, ma in realtà l’Islam è religione di Stato e vige la sharia. I cristiani rappresentano il 5% di una popolazione totale di 40 milioni.
La contestazione è nata in questo panorama conflittuale. Gli slogan più usati sono «Libertà, pace e giustizia», e «Abbasso». I social network hanno svolto un ruolo importante in questi tentativi di liberare un popolo che aspira a vivere in pace e giustizia.
101 morti e 326 feriti
Ma l’esercito e la polizia sono quasi subito venuti meno alla tregua stabilita con i manifestanti e con i loro rappresentanti estremamente ben organizzati. Va detto che, il 18 maggio, gli islamisti hanno denunciato gli accordi tra la giunta e i rappresentanti civili. L’esercito si è sentito affrancato da ogni impegno. Il 3 giugno, per disperdere centinaia di migliaia di manifestanti, non ha usato i gas lacrimogeni ma le armi. Risultato: 101 morti e 326 feriti. Una quarantina di corpi sono stati ripescati nel Nilo, 800 persone sono state arrestate.
Ritroviamo in Sudan le stesse dinamiche dell’Egitto, quando, dopo la rivolta è entrato in scena l’esercito e ha posto fine alle proteste sotto la guida del maresciallo Al Sisi, uomo forte sostenuto dagli americani e dagli israeliani.
L’Unione Africana ha reagito con prontezza e ha mandato il primo ministro etiope a mediare tra l’esercito e il popolo. L’Ua ha negato qualsiasi legittimità all’attuale governo. E la resistenza popolare continua pacificamente.
Anche l’Algeria sta seguendo con interesse e preoccupazione ciò che accade in Sudan. Non sappiamo come si evolverà l’attuale periodo di transizione nelle mani dell’esercito. Finora, ogni venerdì, il popolo algerino manifesta contro il sistema che ha dominato il Paese fin dall’indipendenza. Si teme che l’esempio sudanese venga seguito dall’esercito algerino che, se si arrende, dovrà dar conto del suo operato.
Traduzione di Carla Reschia