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 2019  giugno 10 Lunedì calendario

Intervista a Chris Offutt

Quando Chris Offutt telefonò al padre dicendogli che aveva trovato un editore per il suo primo libro lui gli rispose: «Non sapevo di averti dato un’infanzia così terribile». Anche lui, Andrew J. Offutt, era uno scrittore: di libri pornografici e di fantascienza. Il figlio gli ha dedicato Mio padre il pornografo, un memoir intenso, pieno di rabbia e amore che minimum fax ha pubblicato qualche mese fa. «Mio padre credeva di avere avuto un’infanzia miserabile e che fosse stato questo a trasformarlo in uno scrittore. Poiché pensava che fosse vero per lui, pensava che fosse vero per tutti» racconta al «Corriere», alla vigilia del suo arrivo in Italia. Nato sessantun anni fa in Kentucky, Offutt ha raccontato nei suoi libri la cosidetta «America profonda», fatta di paesaggi desolati e solitudini, di alcol e armi. «In realtà non c’è una ricetta o un prerequisito per essere uno scrittore – continua —. Devi solo leggere e scrivere molto ogni giorno, per anni. Per me è il modo più libero di vivere possibile. Nessun capo, si governa il proprio tempo. La disciplina e la resistenza sono la parte più difficile».
Infatti per scrivere questo libro ci sono volute 33 bozze.
«Sono molto diligente. Per me la revisione è la scrittura. Nel caso di questo libro, poi, la struttura è intricata, si muove nel tempo in ogni capitolo e all’inizio ho commesso molti errori. La prima bozza era di 150 pagine più lunga di quella finale».
Quando ha capito che doveva scrivere un memoir su suo padre?
«Ho pensato a lungo di scrivere di mio padre, per la sua personalità e per la nostra complessa relazione. Nei primi libri lo evitavo. Ho raccontato famiglie in cui il padre era assente, ma l’assenza richiamava l’attenzione sulla sua figura. Circa 20 anni fa ho provato a scrivere un libro su di lui, ma non era molto buono. Poi ho capito: poiché mi aveva fatto del male, stavo cercando di fargliene a mia volta. Ma lo amavo e cercavo anche di proteggerlo. Le due cose lavoravano l’una contro l’altra e la qualità del libro ne ha sofferto enormemente, così l’ho messo da parte. Poi mio padre è morto, ho trovato i suoi libri e ci ho riprovato. Tutta la mia vita di scrittore consiste in questo: provare, riprovare, poi provarci ancora. Alla fine tutto ciò produce qualcosa».
Suo padre come avrebbe reagito a questo memoir?
«Credo che per prima cosa avrebbe gioito per questa possibilità di sopravvivere dopo la morte.Poi si sarebbe rimesso a scrivere porno e a bere whisky. Diciamo che sarebbe stato in basso nella sua lista delle priorità».
Nei suoi libri tradotti in Italia da minimum fax – «Nelle terre di nessuno» e «Country Dark» —, lo stretto rapporto con il Kentucky e con chi lo abita è il nucleo centrale. Perché ha sentito il bisogno di dare voce a queste persone?
«Quando ho iniziato a scrivere, trent’anni fa, ho cercato libri ambientati in montagna che raccontassero la gente che io conoscevo. Non ne ho trovati. Ce n’erano alcuni sugli anni Quaranta, ma non era il mio mondo. Sono rimasto molto sorpreso che non ci fossero libri ambientati sugli Appalachi dopo la guerra del Vietnam. Eppure era un periodo di cambiamenti molto rapidi. Da giovane scrittore, ho deciso di provare a fornire un corpus letterario per il futuro. In questo modo, i giovani scrittori che venivano dopo di me avrebbero avuto qualche altro libro sul loro mondo, sulle loro montagne. Mi sembra un po’ pomposo ora, il sogno ambizioso della mia giovinezza, ma è la verità. Scrivo per fornire una letteratura per persone che non ne hanno».
Si sente ancora parte di loro?
«Oh sì. Sono la mia famiglia, i miei amici, i miei vicini, le persone che amo. Scriverne è un modo per tornare a casa quando ne ho nostalgia. Mi mancano loro e il paesaggio, ogni giorno. È più che far parte di loro. Io sono loro».
È l’America che ha votato Trump?
«In tutti e cinquanta gli Stati hanno votato per Trump. Per lo più bianchi, per lo più uomini, per lo più razzisti. Io non ho votato per Trump».
In che misura il paesaggio di questa terra influenza il comportamento di chi ci vive?
«C’è un vecchio detto: “La geografia è destino”. Se si vive su un’isola, si mangia molto pesce. La gente di città si preoccupa delle apparenze per distinguersi dalla folla. Le persone in montagna sono più isolate e hanno un forte rapporto con la natura. Questa stretta vicinanza è insolita per l’uomo del XXI secolo, eppure niente è più bello della natura e niente è più spietato e brutale. Questa combinazione di bellezza e durezza influenza i montanari e ha influenzato anche me».
I suoi personaggi hanno il culto della vita nei boschi, delle tradizioni di un passato che rispettano, non esitano a usare le armi. Ha familiarità con questo tipo di vita?
«Sì, molta. Sono cresciuto in una piccola comunità di 200 persone dei Monti Appalachi, fino agli anni Quaranta un posto di minatori. Fuori dal lavoro erano persone toste. La maggior parte cacciava per mangiare e l’isolamento ha permesso di continuare le vecchie tradizioni. Io vivo in una casa immersa in cinque ettari di terra alla fine di una strada sterrata. Ho un grande orto, alberi di fichi e noci, polli e uno stagno. Ho anche intenzione di provare ad allevare capre e api. Ho ereditato il fucile di mio nonno, il fucile di mio padre e la pistola di mio zio. Un giorno andranno ai miei figli. Nel mio piccolo, mantengo le tradizioni delle mie montagne».
Al Festivaletteratura di Mantova, lo scorso settembre, lei ha detto che in Kentucky c’è un forte senso di fedeltà alla propria terra e alla propria famiglia. Non ha trovato questa lealtà nelle grandi città in cui è vissuto?
«Non ho mai vissuto molto a lungo nelle grandi città, ma mi sono accorto che a New York, Los Angeles, Boston, dove sono stato, c’è un’idea diversa di fedeltà. Le persone sono fedeli alle loro squadre sportive, alle loro scuole, al loro lavoro. Sulle colline del Kentucky, non è così. Ci sono meno opzioni, abbiamo la famiglia come cosa più importante, e spesso unica, a cui essere fedeli».
Lei scrive da quando era bambino. Perché ha iniziato?
«Leggevo due o tre libri al giorno, avevo bisogno di fuggire in un mondo immaginario. A un certo punto è stato naturale inventare le mie narrazioni. Ho sempre scritto, forse era un modo per ottenere l’attenzione di mio padre, può darsi che abbia voluto copiarlo, come tutti i figli».
Lei è anche sceneggiatore. Questo ha influenzato il suo approccio alla scrittura?
«Credo abbia rafforzato la mia abilità nel pensiero visivo. In generale, tutto ciò che leggo o scrivo influenza il progetto a cui sto lavorando in quel momento. Di conseguenza ci sto molto attento. Evito i social media e la maggior parte dei siti di notizie. Non guardo molta tv. Scrivo al mattino, lavoro all’aperto nel pomeriggio, e cerco di leggere libri di notte».
Per le ambientazioni il suo nome è spesso associato a quello di Kent Haruf, scrittore molto apprezzato in Italia.
«Amo il suo lavoro e amavo lui come persona. Leggevamo l’uno i libri dell’altro ancora prima di incontrarci. Quando mi sono presentato, mi ha abbracciato e ha detto che ero di famiglia. Siamo rimasti in contatto fino alla sua morte. Mi manca».