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 2019  giugno 10 Lunedì calendario

Biografia di Giobbe Covatta

Giobbe Covatta (Gianni Maria C.), nato a Taranto l’11 giugno 1956 (63 anni). Comico. Attore. Scrittore. Commediografo. Attivista. Politico. «Ho sempre creduto che ridere senza pensare non sia divertente» • «È nipote dell’ex senatore socialista Luigi Covatta» (Gianfranco Gramola). «Io vengo da una famiglia del Sud parecchio cattolica, di quelle dove la nonna ti racconta che se non fai così e cosà Sant’Antonio si arrabbia e ti fa cadere una coscia». «Tutti la credono di Napoli, ma lei è nato a Taranto. “Perché sono figlio di genitori viaggianti: padre marchigiano, madre ischitana”» (Antonio Tricomi). «Papà era ufficiale di Marina. L’infanzia l’ho trascorsa in Sardegna, in un’isola allora deserta, dove c’era una piccola base militare italiana di cui papà era direttore. Sono nato sul mare. Poi ci siamo trasferiti a Napoli, e quella napoletana è la mia cultura» (a Sara Cascelli). «Da piccolo pensavo di fare l’esploratore, non l’attore, forse per raccontare il mondo agli altri». A Napoli frequentò il liceo scientifico Mercalli. «C’era il clima di contestazione, eravamo ribelli e gioiosi. Ancora non si respirava quel clima che si sarebbe trasformato negli anni di piombo. Io mi tenevo lontano da certe situazioni. Ma certo è che sono stato figlio del ’68, e comunque mi sono trovato coinvolto in situazioni confuse, mai pericolose però. Il terrore è arrivato poi all’università: frequentavo la Facoltà di Architettura Valle Giulia a Roma». A segnare la prima svolta della sua vita fu però Milano. «“Anche se, appena arrivato, un cartello letto in un bar milanese che recitava “Qui si mangia in fretta” mi aveva destabilizzato […] La scritta era addirittura un’insegna luminosa. Il locale si trovava in viale Corsica. “Mangiare in fretta”, cioè quello era un posto dove non si poteva perdere tempo. Figurarsi, detto proprio a uno di cultura napoletana come me, che invece parte dal principio che il miglior tempo nella vita è proprio quello ‘perso’. All’inizio ho pensato: ma che bizzarri questi milanesi!” Di quali anni parliamo? “Inizi anni ’80. Venni a Milano, dopo l’estate, per fare visita ad alcuni amici, e accompagnai uno di questi, Roberto Cajafa, a fare un provino al Derby. Risultato? Fui preso io al posto suo. Arturo Corso, il regista che mi scelse, disse: cominciamo a dicembre”. Lei che fece? “Un dilemma. Io di professione facevo lo skipper e avevo la mia barca, un folkboat inglese per sei persone, che si chiamava Gabbiano, attraccata a Fiumicino. Avevo anche una scuola di vela a Capo Vaticano. Pensavo di partire per le Canarie in quel periodo, perché si avvicinava il Natale e avrei potuto lavorare nella nautica da diporto. La tradizione marinaresca è un’eredità di famiglia. […] Ma, quando arrivò la proposta del Derby, decisi di accettare per gioco. Volevo solo divertirmi”. Dunque trasferimento a Milano? “Sì, prima casa nel quartiere Baggio, vivevo in un appartamento prestato da un amico che lo usava come garçonnière. Ci stavo con un collega, Victor Hugo Satta. In quella casa bisognava fare attenzione a come ci si muoveva: bastava un movimento sbagliato e si accendevano le luci rosse mentre si diffondeva una musica sensuale. Poi i cassetti erano pieni di vibratori e altri sex toys. In casa c’erano anche Enzo Iacchetti e Malandrino e Veronica. Dormivamo tutta la mattina e parte del pomeriggio. Solo la domenica la sveglia era alle 14,15 per vedere alla tv Tutto il calcio minuto per minuto. Devo ammettere che nel mio primo anno a Milano non ho mai visto la luce del giorno. […] Infatti, scherzando dicevo che frequentavo prostitute, trans e spacciatori, perché la notte dopo gli spettacoli ci fermavamo con Enzo e gli altri a prendere un panino nei chioschi per strada, che alle prime ore del mattino erano frequentati da questo tipo di umanità. Comunque, gli amici mi chiamavano ‘lo spacciatore di modelle e ballerine’, perché lavorando nei cabaret ne conoscevo molte e tutti mi chiedevano di presentarle anche a loro. Sono stati anni spensierati, non c’era il pericolo dell’Hiv, quindi nessuno ti chiedeva le analisi, né tu eri tenuto a chiederle. Insomma, gli amori andavano e venivano con meno problemi, sia dal punto di vista ‘tecnico’ che etico”» (Massimiliano Chiavarone). «Lo humor di Covatta è dunque nato in una città di grandi tradizioni cabarettistiche come Milano. “Ho avuto come compagni di viaggio Iacchetti, Rossi, Abatantuono, Aldo Giovanni e Giacomo. Il nostro umorismo era una via di mezzo fra quello impegnato dei Fo e dei Gaber e quello più frivolo dei Boldi e dei Teocoli. Il mio primo personaggio era il cliente di un villaggio turistico”» (Roberto Incerti). «Sul palco del Derby o dello Zelig la regola era: se non ti menano, funziona. Il mio personaggio leghista superò il test». «Era davvero un gioco, e il fatto delle 30 mila a sera nel 1984 era secondario. E la gente rideva: funzionava perché lavoravamo senza lo stress del successo, ma per divertirci noi. Poi è arrivata la tv. È diventato un lavoro» (a Maria Pia Fusco). Anche le sue prime esperienze televisive, nella seconda metà degli anni Ottanta, ebbero luogo a Milano, prima su Odeon Tv (Una notte all’Odeon), poi su Rai Due (Tiramisù, Fate il vostro gioco, Chi c’è c’è), «ma poi conobbi la consacrazione a Roma, con il Maurizio Costanzo Show e le parabole di Giobbe». «L’idea mi venne per caso, ebbi davvero c… Una sera durante uno spettacolo improvvisai una battuta su Mosè. La gente rise. Così pensai alle parabole satiriche. In materia ero molto preparato perché vengo da una famiglia cattolicissima. Nella mia satira, però, non c’è niente di anticristiano. Mi piace essere polemico, ma rispetto le idee di tutti». «Cominciò con un saio marrone ed una parola, quella “di Giobbe”: “All’inizio era il Verbo… Il complemento oggetto venne molto tempo dopo!”, e il suo pulpito fu il Costanzo Show» (Silvia Lessona). Nel 1991, l’anno successivo all’esordio su Canale 5, il suo straordinario debutto editoriale. «“Ho preso la Bibbia e ho cancellato tutto quello che non faceva ridere.” Quanto è rimasto dell’originale? “Quello che trovi su Parola di Giobbe. La Bibbia è un testo di straordinaria potenza, bella da leggere aldilà dell’aspetto religioso. E i sentimenti che vi sono rappresentati non sono solo quelli ‘buoni’ che tutti immaginano. Nella Bibbia succedono cose terribili, intere popolazioni si generano da incesti, avvenimenti catastrofici, popoli che spariscono ingoiati dal fuoco, gente che diventa di sale”. Il successo del libro è stato clamoroso. Lei se lo aspettava? “Certo che no! La prima tiratura era di 3 mila copie: abbiamo subito pensato di farci i regali di Natale! Poi ne sono uscite 47 edizioni, è rimasto in classifica per 92 settimane, oltre 1 milione di copie vendute. Ci ho comprato casa”» (Cascelli). Parallelamente alle varie partecipazioni televisive, sia sulla Rai (L’ottavo nano) sia su Mediaset (Mai dire Gol, Mai dire Domenica, Zelig), gradualmente diminuite nel corso degli anni, Covatta ha sempre svolto un’intensa attività teatrale (Parabole iperboli, Primate assoluto, Dio li fa e poi li accoppa, Corsi e ricorsi… ma non arrivai, Seven, Trenta, 6° (sei gradi), e in coppia con Enzo Iacchetti Niente progetti per il futuro e Matti da slegare), improntando sempre più spesso i propri testi a tematiche di interesse sociale, con particolare riferimento alle condizioni di vita in Africa e ai problemi dell’ambiente. Tali questioni infatti sono al centro dell’attivismo di Covatta, sin dagli anni Novanta volto delle campagne di informazione e sensibilizzazione di Amref (African Medical and Research Foundation), «la più grande organizzazione sanitaria no profit attiva in Africa», e Save the Children nonché sostenitore e rappresentante della Federazione dei Verdi. «L’Africa a che punto entra nella sua vita, diventando un motivo di racconto, spettacoli, campagne? “Sono un viaggiatore da sempre, da ben prima di cominciare questo mestiere. Sono partito con la voglia tipica della mia generazione di scoprire se stessi, ma alla fine non si scopriva un bel niente. In Africa ci sono andato, a un certo punto, con la telecamera, che è un modo di viaggiare differente, perché è come un annotare gli avvenimenti, riguardarseli, non affidarli alla selezione del ricordo. Ho scoperto che quello che noi chiamiamo continente nero è in realtà un continente grigio, pieno di sfumature, e quindi la scelta è vastissima”. Ricorda il primo contatto? “Da ragazzotto, prima in Marocco, come nel film Marrakech Express. Poi sono sceso in Mauritania, in Egitto; c’è stata la prima volta in Kenya, ed è arrivato il Ruanda, con la telecamera, la prima esperienza faticosa, difficile: lì ho deciso che nei miei documentari non avrei mai raccontato la morte. Per i morti, con infinito rispetto, non si sarebbe potuto fare più nulla, ma per i vivi, a volte malconci, sì. Non ho mai mostrato un cadavere, mai, perché l’Africa è un continente che certamente fatica a sopravvivere, ma è vivo, molto vivo”» (Antonella Gaeta). All’Africa, e più precisamente ai diritti negati dei bambini africani, è dedicato anche il suo ultimo spettacolo, La divina commediola. «un tributo ironico al sommo poeta Dante Alighieri. […] La “versione” di Covatta sarebbe stata reperita in una discarica, una versione “apocrifa” della Commedia scritta da tal Ciro Alighieri. Purtroppo è stato reperito solo l’Inferno, e non in versione completa. Dopo un attento lavoro di ripristino si può finalmente leggere questo lavoro dimenticato, che ha senz’altro affinità ma anche macroscopiche differenze con l’opera originale. L’idioma utilizzato non è certo derivato dal volgare toscano, ma è senz’altro più affine alla parlata napoletana» (Andrea Di Blasio). «“È un percorso giocondo, sì, possiamo definirlo così, attraverso una serie di miei aneddoti capitati in Africa e che possono essere indicativi di una mancanza, di un tradimento dei diritti. Se un bambino non ha acqua potabile, non attiene alla cronaca, ma al suo diritto ad averla: un diritto è qualcosa di inalienabile, non è un premio. Questo è il percorso dello spettacolo, che è in quartine e non in terzine. ‘Perché?’, mi chiederà. Eh, perché è molto più facile!”. Quindi, c’è un poeta che comincia il viaggio. “Sì, all’Inferno, dove incontra un bambino africano che si chiama Virgilio e che lo accompagna nei gironi: quello delle Furie, che sono l’Aids, la malaria, l’ebola, il morbillo; c’è il girone dove manca l’acqua, poi quello dei bimbi in guerra, quello della sanità, della scuola. Alla fine scopriamo che il poeta sta attraversando un Inferno dei bimbi, in cui ci sono vittime e non carnefici. Certo, raccontato così ha un aspetto altamente drammatico, ma il tutto si svolge con molta allegria”» (Gaeta) • Circa 5 milioni di copie vendute con i suoi sette libri (Parola di Giobbe, Salani 1991; Pancreas – Trapianto del libro Cuore, Salani 1993; Sesso? Fai da te!, Zelig 1996; Dio li fa e poi li accoppa, Zelig 1999; L’incontinente bianco, Mondadori 2002; Corsi e ricorsi ma non arrivai, Mondadori 2005; A nessuno piace caldo – Perché il pianeta ha la febbre, Mondadori 2015). «Fu […] una cartomante di Milano a predirmi che sarei diventato uno scrittore». «I veri scrittori non me l’hanno perdonata e alcuni sono stati presi da crisi isteriche. Il mondo letterario mi considera un inquinatore. Secondo loro tutto ciò che non è letteratura contamina l’oggetto libro» (a Brunella Schisa) • Varie esperienze cinematografiche, dapprima in piccole parti (Pacco, doppio pacco e contropaccotto, Camere da letto), poi con ruoli più importanti, o in pellicole a tematica africana per le quali Covatta ha collaborato anche alla sceneggiatura (la commedia Muzungu, il documentario Sono stato negro pure io) o in commedie disimpegnate (Il segreto del successo, Una donna per la vita, Poveri ma ricchi, Poveri ma ricchissimi). «Un magone ce l’ho: mi sarebbe piaciuto fare più cinema» • Sposato con la sceneggiatrice Paola Catella; due figli, Niccolò (1989) e Olivia (1996) • «Sono sempre stato convinto che non esiste argomento talmente tragico che non si possa riderne. Con la religione non sono dissacratorio, ma ci sono aspetti comici, e sottolinearli non significa togliere serietà. E parlo di religione perché sono italiano: il nostro rapporto con le cose dell’anima e della coscienza, con l’aldilà, passa per quello. Se fossi americano parlerei di psicanalisi. Woody Allen è americano ed ebreo, io sono italiano e cattolico» • «Sono sempre stato vicino a un’area di sinistra, al Pd». Qualche esperienza politica: per i Verdi fu consigliere comunale a Roma dal 2006 al 2008 («Quella volta mi feci fregare da Veltroni. Ma per fortuna dopo due anni lui si candidò premier e si sciolse il consiglio comunale») e, divenuto portavoce del partito, si ricandidò come capolista anche alle elezioni capitoline del 2016, senza però essere eletto a causa della soglia di sbarramento; nel frattempo, nel 2015, si era candidato invano nella lista di centrosinistra «Uniti per le Marche» alle elezioni regionali marchigiane. «Non sono capace di fare il politico. Le mozioni, le mediazioni, le astensioni: ecco, dopo un quarto d’ora di quella roba non ce la faccio cchiù» (a Lavinia Rivara). «Preferisco occuparmi dell’ambiente più che della politica in senso stretto. Anche perché non ne sarei capace. L’ambiente riguarda tutti, quelli di destra e quelli di sinistra. Sembrerà strano, ma riguarda pure Giovanardi» • «È uno dei testimonial dell’Amref (Fondazione africana per la medicina e la ricerca). A quale progetto è particolarmente legato? “Più che a un progetto sono legato a una zona dell’Africa compresa tra Sudan, Kenya ed Etiopia. Qui sono riuscito a portare avanti una serie di programmi sanitari per aiutare le popolazioni locali, tra cui la costruzione di pozzi e di scuole. Una di queste porta addirittura il mio nome: ’Giobbe Covatta Primary School’”» (Silvia Mattoni). «Il volontariato può cambiarti la vita. È successo a me. Ma è accaduto anche a mia moglie, Paola, perché le cose le facciamo sempre in due: continuiamo ad avere piacere di condividere certe cose. […] Le parole hanno il loro peso. Fare oggi il volontario è quasi essere collaborazionista degli invasori. A proposito di parole, allora, bisogna chiedersi se davvero i migranti in fuga da guerre e povertà possano realmente dirsi invasori. Basta andare sul vocabolario. Non c’è mica da filosofeggiare sopra». «Soffre di mal d’Africa? “No. Il mal d’Africa per gli occidentali è un meccanismo bizzarro, e attiene più ai privilegi che hanno lì che non ad un fatto legato al cuore. Io qui in Italia sto benissimo, con la famiglia, il cinema, i libri. Sono occidentale, nato con cinema e tv. Questa è la mia cultura”» (Cascelli) • «Prima di essere un comico, ero un viaggiatore. E viaggiare è guardare il mondo e dire, al ritorno: sono un po’ diverso da quando sono partito. Ad un certo punto ho trovato anche il sistema per sbarcare il lunario – perché ai tempi dell’esordio di tutto mi preoccupavo tranne che dell’ambiente: ero piuttosto alla ricerca di come pagare le bollette! – e, quando le cose hanno cominciato a funzionare, mi sono detto: adesso posso anche raccontare le cose che mi piacciono, quindi il mondo» • Altro suo storico impegno quello in difesa delle balene: già nel 1994 «con Greenpeace ha rappresentato lo spettacolo Aria condizionata, in cui affronta il tema della salvaguardia delle balene. […] “Sono salito su una delle due barche di Greenpeace per il tour dello spettacolo, nato per salvaguardare questi cetacei dalla caccia commerciale. Grazie al ricavato di quella tournée è stato possibile acquistare proprio un gommone per la difesa di questi mammiferi”» (Mattoni) • «Un comico diverso, impegnato, che usa l’ironia per far riflettere. […] Con garbo, ironia, contro-informazione, Giobbe sa far ridere, sorridere su temi importanti, spesso tragici» (Incerti) • «Mi descrivo come un attore di teatro, perché penso sia la forma in cui posso esprimermi al meglio. Ma, come in tutte le cose, dopo un po’ mi annoio e non vedo l’ora di scrivere un libro, di fare un film e così via. Mi sento un personaggio dalle mille sfaccettature: un po’ attore, un po’ scrittore, un po’ esploratore…». «“Non amo molto la televisione, non la inseguo. Non sono un comico televisivo, e non è un fatto snobista. La tv è uno dei mezzi espressivi che mi piacciono meno, è freddo, c’è sempre qualcuno che ti dice di essere più o meno svelto: hai 11 minuti, ne taglio 2, rifacciamone 5. Fare televisione mi mette un po’ in ansia, non mi diverto quasi mai. Anche se le riconosco grandi poteri e so che di tanto in tanto bisogna farla, così la gente si ricorda di te, che non sei morto! E vai dove ci sono gli amici”. Che sarebbero? “I Gialappi, Gino e Michele, Fabio Fazio, Maurizio Costanzo. Il rapporto con loro viene da lontano, sono persone con le quali mi fa piacere stare, al di là dei 7 minuti che si registrano, per passarci il resto della giornata”» (Cascelli). A Taranto «sono tornato per la prima volta in età adulta, quando mi hanno chiesto aiuto per la diffusione della questione Ilva. Ho partecipato a qualche campagna, ma avevo già 50 anni. Per l’occasione, ho chiesto a mia madre dove fossi nato. Mi ha dato l’indirizzo, ma in quel palazzo adesso c’è la Coin. Allora ho domandato a che piano fossi nato, e lei mi ha detto al secondo. Ci sono andato, ed era il reparto biancheria: sono nato in mezzo alle mutande!».