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 2019  giugno 10 Lunedì calendario

Ritratto di Charlie Chaplin

In questi giorni, è da poco scoccato il 130° anniversario della nascita di Chaplin (1889-1977). La Cineteca di Bologna, con la famiglia, ha messo in rete il suo archivio. L’editore Marsilio aveva pubblicato un intelligente e bellissimo libro dedicato alla vita e all’arte di Chaplin (David Robinson, Chaplin la vita e l’arte, traduzione di Daniela Fink, pagg. 880, 35 euro). L’infanzia era stata miserabile: la madre chiusa in manicomio: la giovinezza in ospizio e poi subito l’amore e l’entusiasmo sviscerato per la danza e la pantomima.
Eccolo, Charlot, ora umile, ora aggressivo, ora effusivo, ora buffonesco: i piedi nei rozzi zoccoli di legno: il cappello o i cappellacci ridicoli. Era piccolo, ricciuto, mobile, sorridente: capace di ogni metamorfosi: ora mendicante, ora buffone, ora monello, ora vagabondo, ora vero o finto ubriaco, ora mimo spettacoloso, e sempre escogitatore di trucchi: ora taglialegna, ora ladro o finto ladro. Recitava con il carissimo fratello Sydney, a volte più astuto di lui: amico di tutti gli attori tragici e comici del tempo – da Stan Laurel a Pola Negri a Douglas Fairbanks. Portava scarpe meravigliose che si rompevano, si aprivano e si spalancavano entusiasticamente al vento. Era ebreo o faceva la parte dell’ebreo.
Anche oggi possiamo definirlo con una parola sola. Chaplin era Charlot, e Charlot era un mimo: come forse non se ne erano mai visti nella storia universale. Dove trovare sempre quelle scarpacce? E quei cappelli di paglia? E quegli stracci? E quei dormitori? Dove inventava quelle gag una più esilarante dell’altra? Ora Charlot fugge: ora lavora in una fabbrica miserabile: ora finisce in prigione; ora insegue le donne – l’amatissima Pola Negri in primo luogo, non sappiamo mai se seriamente o se per gioco. Certo, Charlot era, sopratutto, un mimo. Ma come lui, non se n’era mai visto nessuno dall’Ottocento: capace di diventare un eroe del primissimo Dickens o un altrimenti memorabile Tati: o un miserabile Napoleone, perso nella Russia del teatro; sempre fuori di se stesso, signore e tiranno dei suoi moltissimi collaboratori. Cambiava sempre: ma i vestitacci o i discorsi o le chiacchere non si somigliavano nemmeno per un minuto. Corteggiava sia i ricchissimi capitalisti sia i miserrimi operai e giocava come Hitler con i suoi discorsi interminabili e con le palle rotondissime che imitavano l’universo. Ora era perduto nei sogni: ma subito dopo era un angelo dalle spettacolose ali colorate.
Vicino a lui, con estro minore, ecco Stan Laurel – Cric. Com’era gentile, a volte, Charlot! Soccorreva bambini affamati e corteggiava bellissime ragazze cieche: ora lietissimo, ora disperato; ed eccolo in prigione, o nel dormitorio, o tra i ricchissimi proprietari di New York e della California.
Dunque, in primo luogo Charlot era un mimo. Se i suoi colleghi avevano una corda sola, lui giocava con ogni corda, come se ripetesse tutta la storia delle buffonate dall’Impero romano, da Nerone al ventesimo secolo. Eccolo goffo: eccolo severo: eccolo timidissimo, cascando da una sciocchezza a un’altra sciocchezza, capace persino di diventare Hitler (Hynkel). Era un clown, timido, inefficiente, pieno di minime risorse, incapace, pasticcione, ubriaco, aereo, volatile, confuso in un mondo che non aveva nessun posto per lui. Se dava un morso a una mela ci trovava un enorme verme: bastava che passeggiasse per inciampare in tutti gli angoli delle strade: se entrava in una fabbrica, preso dal furore, la distruggeva in pochi minuti; e subito dopo, per distrazione, si innamorava di tutte le ragazze possibili. Sapeva persino imitare le trovate del Flauto magico : Papageno, o Papagena, o Sarastro o la Regina della notte, o apparire come il mirabile Monsieur Verdoux che insegue calabroni e farfalle e vecchie signore istupidite. Buster Keaton è un mirabile buffone: ma egli è infinitamente più bravo.
Le sceneggiature erano per film muti. Eppure pareva che la lingua inglese non avesse mai visto un autore di questa forza, un autore così geniale: insomma un grande mimo, un mimo assoluto, che rivela la metafisica, la tragedia, l’assurdo, l’insensatezza, o la mirabile follia della morte. Ora è gentile ora è feroce, e può diventare un bambino di sei anni che rompe i vetri o una donna bellissima che finge di essere cieca, offrendo fiori a tutti gli angoli delle strade.
Recitare non gli basta mai. Diventa un grandioso prodotto cinematografico: investe enormi capitali a Hollywood; d’accordo con Pola Negri o Edna Purviance o Douglas Fairbanks: pare addirittura Nerone prima di conoscere Seneca. Compone capolavori uno dopo l’altro: La febbre dell’oro (1925), Il circo (1928), Luci della città (1931), Tempi moderni (1936), Il grande dittatore (1940), Monsieur Verdoux (1947: che io preferisco a tutti gli altri film). Qualche volta sembra Dostoevskij, qualche volta un angelo, qualche volta un danzatore di circo: oppure diventa (chissà perché) comunista: Hitler e poi Mussolini; e imita gli innumerevoli attori che lo imitano malamente. Come fermarlo sul palcoscenico? Charlot non si ferma mai. È sempre da un’altra parte. È più bravo di tutti gli attori che per quarant’anni giocano col cappello, col bastone da passeggio, o le fotografie, ed essi diventano i suoi oggetti parlanti, burattinesca mescolanza di legno e di carne. Casca sempre nei puzzolenti canali delle città. Emula Dickens: il grandissimo Dickens. È un mirabile sceneggiatore anche se non diverrà mai un romanziere. Rimasto instabile, assurdo, capriccioso e civettuolo sino alla fine: comico sino alla tragedia, tragico fino alla commedia assoluta, più di Beckett. Chi potrebbe dimenticare la Danza dei panini? O le sue corse in groppa agli elefanti, o dimenticare la sua musica di piatti, di tamburi e di tromboni? «Tutto quello che faccio è danza », disse, «o musica visiva». I suoi emuli falliti sono Buñuel e Ejsenstein e Bergman. Poco ci importa che abbia frodato sistematicamente le tasse. «Ora voglio sei mesi di pace e di tranquillità», pretende. «Nessuna pace».
Anche quando invecchia non si stanca mai; ed è operosissimo per giornate intere, nutrendosi a mala pena di cibo inesistente. Chi ricorda ormai le pellicole e la produzione! Eppure continua a lavorare con l’attenzione che potrebbe aver avuto, prima di lui, il suo antenato Mozart oppure il suo coetaneo Pirandello.
Infine scopre la patria definitiva: la Svizzera, Losanna. In età matura, sposa Oona O’Neill, la bellissima figlia di un famosissimo commediografo, e si mette a generare figli, come fino allora aveva congegnato gag e pellicole e spettacolosi sbalzi nell’aria. Diventa austero, severo, socialista, ricchissimo: la Svizzera è, ora, la sua patria. Lo vediamo, mentre getta, silenziosamente, la lenza col verme nelle acque del lago di Losanna.
Il finale è quieto, con la moglie Oona e i figli, e i suoi incantevoli trucchi: sebbene i suoi film non siano mai felici, perché Chaplin ignora l’happy end della tradizione. Gli giunge la morte il 25 dicembre 1977, dolcemente, soavemente, nel sonno dei beati.