10 giugno 2019
Due articoli sulla chiusura del Four Seasons
Paolo Mastrolilli per La Stampa
Se un giorno a pranzo ti trovavi seduto fra Henry Kissinger, l’architetto Philip Johnson, il banchiere fondatore di Lehman Brothers Peter Peterson, l’editore di Randon House Jason Epstein, la mitica direttrice di Vogue Anna Wintour, la modella Heidi Klum, il designer Oscar de la Renta, e magari il potentissimo e disgraziato produttore cinematografico Harvey Weinstein, in fondo eri stato sfortunato. Perché dall’anno della sua fondazione, 1959, tutti i presidenti degli Stati Uniti eccetto Nixon hanno mangiato almeno una volta al Four Seasons. Ma siccome «tutte le cose buone prima o poi hanno una fine», come ricordava saggiamente il capo del Pentagono Donald Rumsfeld, anche questa leggenda newyorchese ha conosciuto la sua. Domani, infatti, il ristorante che aveva coniato il termine «power lunch», pranzo dei potenti, chiuderà per sempre, dopo il fatuo tentativo di rinascere in una sede diversa dall’originale del Seagram Building.
Quando la famiglia Bronfman aveva costruito questo grattacielo progettato dal fondatore della Bauhaus Mies van der Rohe, ancora oggi meta di pellegrinaggio per gli architetti di mezzo mondo che lo considerano il paradigma del modernismo, Jerome Brody aveva convinto i proprietari che un ristorante avrebbe aggiunto prestigio e valore alla proprietà. Ma non un ristorante qualunque. Uno progettato da Philip Johnson, dove entrando passavi davanti all’arazzo di Pablo Picasso «Le Tricorne», e nel menù trovavi stravaganti sofisticatezze, ma anche una semplice patata bollita accompagnata da una bottiglia di olio, al modico prezzo di 40 dollari. In altre parole, un’icona delle città che ambiva a diventare l’icona della modernità globale.
Aprire il Four Seasons era costato 4,5 milioni di dollari, l’equivalente di circa 40 milioni di oggi, perché il gestore Joseph Baum non sapeva badare a spese. La sua ambizione era niente di meno che fondare la nuova cucina americana, «perché non siamo francesi». Così aveva introdotto concetti come quello dei prodotti organici forniti da piccole fattorie, allora rivoluzionario. Il menù poi, così come il decoro della «Pool Room» e la «Grill Room», cambiava col mutare delle stagioni.
La vera rivoluzione però era avvenuta nel 1973, quando la gestione era passata ai giovani Alex von Bidder e Julian Niccolini. Erano stati loro a trasformare il Four Seasons da ristorante in luogo di culto, dove chiunque volesse contare qualcosa a New York doveva farsi vedere. Per descrivere il concetto, nel 1979 Lee Eisenberg aveva pubblicato un articolo su Esquire intitolato «America’s Most Powerful Lunch», e Michael Korda ne aveva aggiunto uno sul Times in cui spiegava che «Le Plat du Jour is Power». Il vero piatto servito ogni giorno al Four Seasons era il potere, consumato dai commensali attraverso gli accordi politici, economici, culturali, conclusi a tavola. L’idea del «power lunch» era nata, e tutto il mondo avrebbe cercato di imitarla.
Era il tempo migliore e il tempo peggiore, come avrebbe commentato Dickens, e la svolta era avvenuta alla vigilia degli attentati dell’11 settembre 2001. L’anno prima Aby Rosen aveva comprato il Seagram, decidendo che era venuto il momento di cambiare. Come prima cosa aveva sfrattato «Le Tricorne», spostato alla New York Historical Society, e nel 2016 aveva lasciato scadere il contratto di affitto del Fours Seasons. Von Bidder e Niccolini hanno cercato di riaprirlo sulla 49esima strada, ma non ha funzionato. I tempi sono cambiati, e un’accusa di molestie sessuali ha costretto Niccolini a lasciare. Così l’altro giorno von Bidder ha mandato questo messaggio ai dipendenti: «Con rimpianto, dopo quasi 60 anni, il Four Seasons Restaurant chiuderà la settimana del 10 giugno. Purtroppo non ce l’abbiamo fatta. Il mondo della ristorazione è cambiato». E con esso New York. Come sempre accade, perché questa è insieme la sua natura e la sua grandezza.
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Arturo Zampaglione per la Repubblica
Era il luogo simbolo del «power lunch». Per più di mezzo secolo, infatti, si erano dati appuntamento per le colazioni di lavoro al Four Seasons gli uomini più ricchi, più famosi e più potenti d’America. Lì, sotto al grattacielo Seagram di Manhattan, facevano affari miliardari o lanciavano bestseller, assaggiando un calice di Sauternes Chateau d’Yquem. Di fronte a un quadro di Picasso (a alla solita sogliola), Henry Kissinger, spiegava ai suoi discepoli, amici e clienti come il Pianeta sarebbe cambiato (e come appofittarne). E tutti, politici e finanzieri, editori e artisti, speravano di farsi vedere dagli altri commensali: perché il solo fatto di essere in quelle sale lussuose, era sinonomo di potere e fonte di pubblicità. Ma dopo il melanconico lunch di domani, il Four Seasons chiuderà per sempre.
«Il mondo dei ristoranti è cambiato, non ce la facevamo più a reggere », spiega il managing partner, Alex von Bidder. Assieme al suo socio, Julian Niccolini, era stato l’artefice dell’epopea del Four Seasons. Il merito artistico era invece di Philip Johnson, la star dell’architettura scomparsa da poco, che lavorò con Ludwig Mies van der Rohe per il grattacielo del Seagram e cui si deve il progetto del ristorante.
Aprì i battenti nel 1959, in tempi molto diversi. La cucina dominante aveva i profumi della Borgogna, mentre a Wall Street dominava ancora uno spirito puritano. Fu una rivoluzione nel mondo della ristorazione americana. La colazione di lavoro non serviva a soddisfare una esigenza alimentare, ma si trasformava in uno spettacolo edonistico e in una occasione, oltre che per il business, per misurare il proprio posto nella società.
La bellezza delle sale fu una componente importante del successo. Era una sequenza armonica di spazi, di scale, di pareti affrescate e piene di quadri di artisti celebri, come Jackson Pollock o Mark Rothko. Affidata a varie generazioni di chef, la cucina tentava di coniugare piatti classici della tradizione francese con le prime provocazioni della gastronomia americana. Certo, si mangiava bene: ma Steve Schwarzman (fondatore di Blackstone), Steve Forbes, Tina Brown e soprattutto Donald Trump non andavano al Four Seasons solo per l’anatra. L’importante era la visibilità.
La crisi del ristorante ha avuto tre tappe. Nel 2016 il nuovo proprietario del grattacielo Seagram, Aby Rosen, decise di rinnovare più il contratto per il Four Seasons, che fu costretto a chiudere una prima volta, a cercarsi un altro spazio e a vendere tutto l’arredamento. Fu un’asta memorabile, portò a un incasso di 4 milioni di dollari, le sedie furono vendute a 3 mila dollari l’una e i quadri finirono nei musei del mondo. I partner del ristorante decisero nel 2018 di riaprire il locale a tre isolati di istanza: una scommessa da 30 milioni di dollari. Il riusltato? Un flop: anche perché Niccolini, il manager e vero animatore del locale, fu flagellato dal #MeToo. Anche lui, dovette dare le dimissioni per molestie sessuali.
L’ultima tappa del Four Seasons: la decisione di chiudere per sempre. Non solo i conti non tornavano più, ma è finito il business model del ristorante. Il power lunch non è più di moda. «E purtroppo perdiamo anche una fetta dell’anima di New York», sospira Paul Goldberger, il critico dell’architettura più celebre della città verticale.