La Stampa, 10 giugno 2019
È finita la Prima Repubblica dei giudici
A chi non è capitato di sbagliare a inviare una e-mail? Nel novembre 2012 Francesco Vigorito, componente del Consiglio superiore della magistratura, spedì a migliaia di magistrati una lettera scritta per pochi sodali («Miei cari...») della sua corrente, Magistratura Democratica. Nella e-mail esprimeva «il dubbio» di aver commesso «un’ingiustizia troppo grossa» nominando per «qualche pressione interna» e in ossequio a logiche di «opportunità politica» la persona meno adatta alla presidenza di un tribunale.
Qualcuno si scandalizzò, qualcuno finse. Poi si continuò a fare come prima.
Nel 2013 Ignazio Marino, candidato a sorpresa del Pd a sindaco di Roma, fu invitato a un incontro elettorale in un elegante palazzo dalle parti di piazza Colonna. A stringergli la mano una cinquantina di magistrati di ogni ordine e grado: Corte dei conti, Tar, Consiglio di Stato, tribunali civili e penali. Tra loro Luca Palamara. A fare gli onori di casa Fabrizio Centofanti, lobbista arrestato nel 2018 per corruzione e ora indagato con l’accusa di aver elargito a Palamara soldi, viaggi, regali. Palamara ha negato regali e reati, ammettendo l’amicizia con Centofanti, peraltro condivisa «con importanti figure di vertice della magistratura ordinaria e amministrativa».
Nomi che tornano nello scandalo delle nomine del Csm che deflagra dentro e fuori il palazzo. Il vicepresidente David Ermini ha parlato di «evidenti tracce di degenerazioni correntizie, giochi di potere e traffici venali: o sapremo riscattare con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti».
Taluni magistrati rimpiangono un passato glorioso in cui le correnti erano forti e impegnate; altri sospirano che «così fan tutti, da sempre».
Le prime correnti nacquero nel 1964. Magistratura indipendente, conservatrice, propugnava un’organizzazione gerarchica e un ruolo del giudice limitato all’applicazione letterale della volontà politica. Magistratura democratica, progressista, si batteva per una distribuzione orizzontale del potere giudiziario e un’interpretazione del diritto «costituzionalmente orientata».
Unicost è il correntone centrista, «balena bianca» con un’anima conservatrice e una progressista. Nel 1988 Falcone e altri se ne dissociarono denunciandone la lottizzazione. Nacque così la corrente Movimenti per la Giustizia, che dieci anni fa ha costituito con Magistratura Democratica un cartello elettorale di centrosinistra chiamato Area.
Nei decenni le correnti hanno animato dibattiti e scontri furibondi, con un profondo afflato culturale. Ma sono anche state un sistema di potere.
Il mosaico che emerge dalle carte di Perugia segna una mutazione genetica. Come la Prima Repubblica fondata sui partiti, è finita quella giudiziaria incardinata sulle correnti tradizionali. Quelle di oggi sono «liquide».
Nella corsa all’ambito posto di capo della Procura di Roma, Palamara e alcuni (quanti?) esponenti di Unicost non brigavano per aiutare Giuseppe Creazzo, candidato della loro corrente, ma il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, benché di Magistratura Indipendente. Ciò in nome della «discontinuità» con il procuratore uscente, Giuseppe Pignatone, anch’egli di Unicost come i «cospiratori».
Anche la parallela caccia a un procuratore di Perugia pare prescindere dal criterio dell’appartenenza correntizia. Più che alla casacca, si bada alla disponibilità ad aprire fascicoli su colleghi «nemici».
Per non dire della stessa Magistratura Indipendente: a Roma, dovendo scegliere tra due associati, rinuncia alla certa vittoria di Franco Lo Voi (più anziano e titolato, votato anche da Area) per percorrere la strada più accidentata.
Altri tempi, quelli delle correnti monolitiche e onnipotenti. Quando per boicottare una nomina bastava ordinare a qualcuno nel Csm «di andare a fare la pipì al momento del voto» (così Edmondo Bruti Liberati, secondo il racconto di Alfredo Robledo). Quando le correnti raggruppavano le nomine in «pacchetti» per garantire nella contestualità gli accordi di spartizione. In assenza dei quali posti importanti rimanevano vacanti per anni pregiudicando «il prestigio dell’istituzione», come denunciò nel 2013 il presidente Giorgio Napolitano.
Nel 2002 Berlusconi cambiò il sistema elettorale dei membri togati del Csm, sostituendo il proporzionale per liste con uno strano maggioritario uninominale a collegio unico nazionale. Chiunque può candidarsi (dentro e fuori le correnti) e concorre individualmente. L’obiettivo era depotenziare le correnti. Risultato boomerang: candidature indipendenti ammazzate in culla (impossibile fare campagna nazionale senza un’organizzazione), accordi preventivi, liste corte per evitare dispersioni di voti. E correnti diventate contenitori fluidi e scalabili, dalle forme mutevoli. Proprio mentre la riforma Castelli-Mastella (2006) riportava elementi gerarchici nelle carriere e stabiliva criteri nuovi (e anch’essi liquidi) per accedere ai posti più prestigiosi. Valorizzando anche attività, istituzionali e non, più utili alla costruzione di consensi personali che all’attività giurisdizionale. Deleghe gestionali, convegnistica, incarichi internazionali. Persino la Scuola di magistratura, dove passano centinaia di magistrati, può diventare trampolino di lancio per un giro al Csm. Come l’organizzazione delle partite di calcio della nazionale magistrati può servire a tessere relazioni politiche (così Lotti ha detto di aver conosciuto Palamara).
Alle ultime elezioni del Csm sono accadute cose strane. Le quattro correnti in lizza, a dispetto dei proclami bellicosi, per i 4 posti in quota pubblici ministeri hanno presentato solo 4 candidati. Più che eletti, nominati. Tra i giudici di merito, 13 candidati per 10 posti. In Cassazione, dove si giocava la vera battaglia, Unicost ha perso lo storico primato: un’emorragia di quasi 900 voti rispetto ai giudici di merito che ha consegnato il seggio a Magistratura Indipendente. «C’è stato uno spostamento deliberato di pacchetti di voti tra correnti», riferiscono due diversi testimoni di quella campagna elettorale, sotto vincolo di riservatezza.
Al netto dei rilievi penali (respinti dagli indagati), i protagonisti delle intercettazioni dell’inchiesta perugina sono i capi di questa stagione di correntismo 2.0. Post ideologica, come dimostra la parabola di Palamara. Figlio di magistrato, studia per il concorso all’istituto Jemolo (che da qualche giorno ha rimosso la sua pagina nella sezione dedicata agli ex allievi illustri), comincia come toga rossa in Calabria, cresce nella Unicost che guarda a sinistra, diventa il più giovane presidente dell’Anm, il sindacato cui aderisce il 90% delle toghe, va al Csm e crea l’asse con Magistratura Indipendente.
Che, pur essendo la corrente più conservatrice e dialogante col governo gialloverde, risulta governata di fatto da Cosimo Ferri, altro protagonista (benché non indagato) delle trattative sulle nomine. Anch’egli figlio di magistrato: il padre Enrico, prima di diventare famoso come ministro dei 110 km/h in autostrada, era stato leader di Magistratura Indipendente. Ai suoi tempi riuniva settimanalmente i membri del Csm per catechizzarli. E convocava luculliani convegni giuridici nella natìa Pontremoli.
Cosimo ha proseguito la tradizione, aggiornandola ai tempi. Brillante, disponibile, trasversale. Eletto a 35 anni nel Csm. Nel 2010, finito il mandato, diventa leader di Magistratura Indipendente. Contesta l’antiberlusconismo (anche di Palamara) e fa proselitismo parlando di ferie, stipendi, carichi di lavoro. Nel 2012 trionfa alle elezioni dell’Anm con 1199 preferenze, un record. Ma i colleghi lo lasciano all’opposizione. Al governo ci va da un’altra porta: l’esecutivo Letta, di cui diventa sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia. Sopravvive alla rottura del patto del Nazareno (chez Verdini) e resta al governo fino alla fine della legislatura, quando Renzi gli garantisce un seggio parlamentare blindato.
Fuoriclasse della politica giudiziaria, nel 2014, incurante del ruolo politico e istituzionale, invia ai magistrati un sms elettorale chiedendo voti per due (non per tutti) candidati della sua corrente.
Puntualmente eletti.
Quando Davigo guida la scissione contro di lui fondando Autonomia e Indipendenza, Ferri pare destinato al declino. Ma alle elezioni 2018 del Csm aumenta voti e seggi, stringendo con Palamara il patto che porta Ermini alla vicepresidenza. Poi il duo comincia a occuparsi delle nomine. Sostiene Viola per Roma. Come, per altra via, fa Davigo. Che in commissione incarichi il 23 maggio vota con la corrente da cui si era allontanato polemicamente.
Ferri era sottosegretario del governo Renzi che, abbassando l’età pensionabile da 75 a 70 anni, decapitò in un colpo i vertici della magistratura, con un ricambio senza precedenti. Davigo ha calcolato che tra il 2014 e il 2018 il Csm ha varato 1049 nomine, di cui il 30% bocciate (anche ripetutamente) dal Consiglio di Stato: motivazioni deboli, arbitraria selezione dei curricula, «criteri incongrui e spuri» di valutazione dei candidati.
Anche questo ha indebolito il Csm. Fino a che il correntismo 2.0 ha precipitato il terzo potere dello Stato in una crisi senza precedenti.