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 2019  giugno 10 Lunedì calendario

Perché gli uomini hanno paura del buio

Nei suoi quaderni, Leonardo Da Vinci annota: «Quando vuoi fare un ritratto, fallo con il brutto tempo o al calar della notte sul far della sera, quando il tempo è brutto, osserva i volti degli uomini e delle donne e scoprirai su di essi comparire grazia e bellezza». Leonardo, il maestro dello sfumato, era affascinato dal contrasto tra luce e buio che quasi spacca in due i volti di Maria, di Gesù e di Giovanni Battista nella “Vergine delle rocce”. Che la luce fosse bella, e un simbolo di divinità e beatitudine, lo si sapeva da secoli, fin dal «E luce fu» della Genesi e dai primordiali culti solari, ma che si potesse estrarre “grazia e bellezza” dal buio, è un tratto moderno tutto leonardesco. Potremmo dire che, ancora oggi, il buio è oltremodo calunniato. E invece, come si evince leggendo l’affascinante saggio Storia del buio di Nina Edwards (Il Saggiatore, 294 pagg., 27 euro) senza il buio, che pure sembra essere sinonimo di tristezza e dolore, vivremmo vite noiose e malinconiche. Il buio, in primo luogo, sembra accompagnare la facoltà più alta della mente umana, cioè il pensiero astratto. Si pensi ai tremendi, claustrofobici Seagram Murals di Mark Rothko, un gruppo di dipinti scuri che il grande artista americano realizzò, inizialmente (poi rinunciò alla commissione), per decorare le pareti del lussuoso ristorante “Four Seasons” di New York. Il suo intento era quello di creare «qualcosa che rovinasse l’appetito di ogni stronzo che mangiasse in quel posto»; qualcosa che al pacchiano, squillante bel mondo che lì si riuniva, amante della luce, della visibilità e dei gioielli, opponesse la visione più nera: un’esperienza del buio. Oggi se guardiamo i murali di Rothko, riconosciamo che dalle tenebre dei loro toni marroni emerge una pulsione vitale, e una certa “grazia e bellezza” anche se è ben diversa da quella cui faceva riferimento Leonardo. Una bellezza tremenda affine a quella che si espresse nell’induismo, dove due divinità strettamente legate a Shiva sono scure: Kali, nera, inghirlandata di teste umane, e Tara, bluastra, rappresentata in cima a una pira funeraria. Ma anche presso gli Egizi, Anubi, il dio dell’Aldilà, era un cane nero. Il fascino del buio, della notte oscura e arcana, vive ancora ai nostri giorni, magari esprimendosi in mode che prendono sempre più piede, come quella, nelle grandi città, dei pellegrinaggi o delle passeggiate notturne. Siamo così abituati ad associare la luce diurna alla routine quotidiana del lavoro e delle preoccupazioni, che approfittiamo della notte, quando si apre uno spazio di libertà e di sogno dove, nella penombra, affascinati da quegli stessi contrasti di luce tanto amati da Leonardo, Caravaggio, Rembrandt, riscopriamo le vie e i luoghi familiari come per la prima volta. Il buio, del resto, come ben sapeva Shakespeare – che nel Sogno di una notte di mezza estate fa dire a Ermia, in cerca di Lisandro nel bosco oscuro: «La notte buia che l’occhio priva della sua facoltà ancor più acuisce il senso dell’orecchio» – amplifica gli altri sensi. E nella nostra società dell’immagine, dove il vedere sembra l’atto più importante, spegnere la luce, immergersi nell’oscurità è un modo per riscoprire la potenza di tutti gli altri canali sensoriali. Da qui anche iniziative un po’ bislacche come i “ristoranti al buio”, dove i commensali si riuniscono nell’oscurità assoluta e mangiano cibi che non vedono, costretti a apprezzarne solo gli odori, i sapori, e l’ambigua consistenza. Naturalmente la visione che, per semplicità, abbiamo detto leonardesca del buio, cioè di uno scrigno di grazia e bellezza insospettate, ha sempre dovuto lottare con la concezione tradizionale che nel buio coglie, molto semplicemente, una rappresentazione del male. Già Petrarca parlava dei “secoli bui”, per riferirsi al lungo periodo di ignoranza e decadenza tra la fine dell’età classica e l’Umanesimo. E il buio è anche l’habitat naturale del demonio, come scrisse il vescovo e cacciatore di streghe tedesco del XVI secolo Peter Binsfeld: «Dopo la cacciata dal Paradiso, il Diavolo divenne buio e oscuro e per questo compie i suoi lavori in posti nascosti e in momenti bui. Inoltre se gli stregoni compissero i loro malefici durante il giorno potrebbero essere visti da qualcuno e la loro malvagità facilmente scoperta». D’altro canto, anche in molte religioni il buio subisce una strana metamorfosi, e da territorio del diavolo può diventare «il contesto che rende possibile il salto nella fede». Di nuovo torna la virtù suprema del buio, la sua capacità di astrazione, di liberarci dagli interessi terreni, di volgerci all’infinito. Ecco così la “Notte oscura” del mistico del XVI secolo Juan de la Cruz, dove solo il Nulla del buio assoluto coincide, per opposizione, al Tutto di Dio. Il cristiano che vuole davvero intuire Dio può farlo solo negativamente, spegnendo la luce ingannevole nella sua anima per cogliere quella “oscurità visibile” di cui scriveva John Milton nel suo capolavoro Paradise Lost, composto quando già era stato colpito dalla cecità.