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 2019  giugno 10 Lunedì calendario

L’Anm palestinese si aumenta gli stipendi

C’è modo e modo di essere corrotto. Ma quando lo si fa roteando una spada che annuncia l’avvento della giustizia per tua mano, la cosa diventa particolarmente penosa. È quello che accade all’Autonomia palestinese di Abu Mazen in questi giorni: in nome della resistenza contro il nemico sionista ha rifiutato le tasse che Israele era come al solito pronto a conferirgli anche se decurtate del budget previsto per i terroristi in carcere, e per questo ha tagliato gli stipendi dei dipendenti civili e militari dal 40 al 60 per cento, penalizzando soprattutto la gente di Gaza, che non gli è molto simpatica politicamente... Ma poi, il governo palestinese si è fatto scoprire con le mani nel sacco. 
Aveva infatti deciso nel 2017 un aumento degli stipendi dei suoi ministri del 67% e lo aveva addirittura reso retroattivo al 2014, un bell’accumulo di shekel. Il primo ministro Mohammed Shtayyeh guadagna sui 6mila dollari al mese e i ministri sono arrivati dai 3mila ai 5mila dollari. Più gli arretrati. Abu Mazen, che è presidente dal 2005 (secondo la legge avrebbe dovuto restarlo per quattro anni) ha approvato la decisione e non l’ha resa pubblica: ci hanno invece pensato, inferociti, i social media e il tamtam della gente impoverita, stanca, disoccupata. La crisi economica è un dato permanente nella vita palestinese, così come lo è l’infinita corruzione che alcuni coraggiosi, incuranti delle sicure rappresaglie, periodicamente denunciano.
Chi scrive ha incontrato più volte persone di tutto rispetto perseguitate da minacce molto sostanziali, esasperate e inutilmente desiderose di comunicare la loro disperazione. I torti subiti, l’impunità nel fornirsi di pubblico denaro spesso donato da Paesi terzi delle classi dirigenti sono nelle mani dei boss locali: questi, su base di amicizia e di forza tengono soggiogati interi gruppi sociali, e sotto la cenere cova, insieme alla miseria che nasce dal rifiuto di occuparsi di qualcosa che non sia la diffamazione e la guerra continua contro Israele, una ribellione che a Gaza è anche scoppiata in piazza.
Ramallah a sua volta adesso ribolle: non lo si dice, ma forse brucia insieme ai furti ora pubblici, anche il disprezzo con cui tutta la nomenclatura a partire da Abu Mazen ha preso la parola scandalizzato per rifiutare l’invito di Trump nel Baharain il 25 giugno. Si tratta del primo passo dell’«accordo del secolo» che intende parlare di pace sulla base di un futuro economico garantito per i palestinesi: il negoziatore Sa’eb Erakat ha annunciato che i palestinesi non si faranno comprare e ha chiamato al boicottaggio tutti i palesi arabi invitati, desiderosi di affrontare una buona volta l’incredibile conflitto israelo-palestinese.
I soldi per i palestinesi di oggi sono stati sempre una funzione della pavloviana attitudine europea e americana a versarne un fiume senza le verifiche necessarie: quando questo è stato fatto e gli americani si sono resi conto che, dei 693 milioni di aiuto l’anno, 345 andavano in sussidi ai terroristi in carcere o alle loro famiglie, hanno bloccato il flusso. L’idea che i palestinesi soffrono la fame a causa di Israele è una carta propagandistica che funziona solo in Europa ormai. I palestinesi stessi specie dopo episodi come quello dell’aumento degli stipendi ai ministri desiderano una svolta.
L’aiuto mirato è una cosa giusta e utile, ma quello che finisce sempre in guerra non è certamente produttivo e non va alla gente. Ne lo è quello che finanziando libri di testo si ritrova a manuali di odio antisemita. Chissà che lo scandalo di Ramallah non conduca i palestinesi in Baharain, a parlare di futuro, anche nei termini più critici possibili.