il Fatto Quotidiano, 10 giugno 2019
Musica per il funerale, una tradizione che resiste a Sud
La banda musicale ai funerali è una scena di quarant’anni fa. La memoria cinematografica custodisce i fotogrammi di Pietro Germi: Marcello Mastroianni, tra i dolenti, e Stefania Sandrelli – il viso avvolto nel foulard nero – che piange, singhiozza e inghiotte dolore. Le trombe, i tromboni e i clarinetti, intorno a loro – nell’abbraccio della folla – squarciano il cielo del pomeriggio e ognuno, ogni presenza, si impetra di luce. E di lutto. La luce e il lutto, appunto: le pagine di Gesualdo Bufalino. Ma ci sono anche le fotografie di Ferdinando Scianna, le note di Leonardo Sciascia, e poi ancora tutta la scienza di antropologia e pietas di Ernesto De Martino.
Non c’era angolo nel Sud del Sud dei Santi dove nelle cerimonie di commiato – oltre all’organo in chiesa – non si richiedesse la presenza dei musicanti. Questa stessa scena l’ho rivista pochi giorni fa, a Leonforte, nella terra delle spighe di Cerere, con i professori di musica inquadrati davanti ai cancelli del liceo classico dove aveva studiato il ragazzo chiuso adesso nella sua bara, strappato a sua madre, ai suoi figli, e a sua moglie, alla sua comitiva, portato via dalla morte che non guarda mai dove va a mietere con la sua falce. Ed era il vero e proprio trionfo della morte – il riconoscimento corale dell’intera comunità – quel vedere i fiati schierarsi in corteo e suonare Jone, una partitura struggente di perdono e misericordia: un omaggio voluto dagli amici, ormai tutti giovani padri di famiglia, una pensata messa in atto come una festa a sorpresa. Come al tempo antico.
Come quando – con la morte in casa – subito si spalancava la finestra per far volare via senza impedimenti chi era appena spirato. “A buon luogo!”, così si diceva a chi era appena morto. E come al tempo antico, giusto lì – su quel marciapiede del liceo, pochi giorni fa – con la festa a sorpresa dei musicanti in uniforme l’intero paese si ritrovava alunno davanti alla scuola per dare destinazione e “buon luogo”. La morte non porge altro presente che il passato: come durante la ricreazione, o per attendere il pullman delle gite, per baciarsi di nascosto, per sovrabbondare di vita. E così il viatico al defunto che se ne va al cimitero – il camposanto che nel suo preciso etimo significa “dormitorio”, ovvero lo spazio del sonno – è un affrettarsi nella consolazione del risveglio. Il linguaggio non sbaglia mai, questo modo di andarsene marciando – si chiama, appunto, “marcia funebre” – intanto sveglia un mondo che non c’è più, un rito collettivo che restituisce a ognuno la propria parte di mistero e terra, la prosecuzione nella carne e nel legno, fosse pure quello della cassa in cui il mai più si trasmuta nel restare. Il linguaggio svela il senso. Il Sud del Sud dei Santi non ha avuto necessità di alcun Halloween. Nel frasario dei bambini il cimitero diventa “Cimiciao!” ed Eschilo, in questa terra, ha suggellato – sta nelle carte del Perroni a Taormina – la luce e il lutto: “Ovunque sia ora il destino, per tutti è in cammino”. Il paese che fu culla, è tomba. E così è anche nel suo viceversa: “Ricevete la bella notizia del Giardino che vi è stato promesso”. Per questo il popolo segue la bara e la banda. È il modo proprio dell’ingenua gioia di ognuno, quando questa gioia chiede e desidera l’ospitalità alla giornata ricevuta in dono. In questa vita e nell’altra. A passo di marcia.